Storia dello Stazzo di "Lu Eldi"
Lo stazzo è ubicato ad una distanza di circa 2500 metri dal mare, ad un'altitudine di 210 metri s.l.m. esattamente a qualche decina di metri del bivio della strada provinciale Castelsardo - Santa Teresa e Trinità - Bivio per L'Isola Rossa.
Il toponimo "Lu Eldi", significa "Il Verde", probabilmente perché in quel sito alle prime piogge, si vedeva "Lu Limpiddu" cioè lo spuntare dell'erba prima che in altri siti.
Il sito di "Lu Eldi" é caratterizzato dalla presenza di diverse case rurali e la maggior parte di queste erano abitate fino a pochi anni fa.
La casa rurale esistente era ubicata in un terreno di proprietà, di circa mq. 6.500. In passato nel terreno esisteva un impianto di vigna, dal quale si produceva un ottimo Vermentino. Tra i filari sono stati introdotti, circa 60 anni fa, dei piccoli "olivastri" che, innestati in seguito con Olive "Bosane", costituiscono oggi un Uliveto in piena produzione.
La casa, nel tempo, ha subito un forte degrado, comportando la necessità della sua demolizione e ricostruzione per evitarne il pericolo di crollo totale.
La sua ricostruzione, ha lasciato comunque inalterata la volumetria, le sagome, le dimensioni, le tecniche costruttive ed i materiali caratteristici.
Le sole modifiche apportate sono lievi varianti alla distribuzione interna, anche ai fini di un adeguamento igienico-sanitario, ed al disegno delle aperture.
Il fabbricato riproduce la tipologia costruttiva dell'antico stazzo gallurese sia per la data di costruzione (é stato realizzato presumibilmente negli ultimi anni dell'ottocento), sia per la tipologia costruttiva "antica".
Dopo i lavori di recupero la casa è divenuta nuovamente abitabile come lo è stata in passato. Si racconta che fu utilizzato come edificio scolastico per gli stazzi delle borgate di La Paduledda, la Scalitta e Cascabraga.
Oggi la vecchia abitazione dello Stazzo, svolge la funzione di casa appoggio all' interno della proprietà, ed è vissuta ed animata per tutto l'anno. L'uliveto è in piena efficienza, e produce un ottimo olio dal delicato profumo di carciofo.



I luoghi del Muto di Gallura.
A cura di Petru

Introduzione

IL MUTO DI GALLURA
Enrico Costa (1841-1909) poliedrico uomo di cultura sassarese dell’Ottocento (fu infatti giornalista, poeta e romanziere) è l’autore del romanzo storico Il Muto di Gallura, pubblicato nel 1884, nel quale si narrano le vicende relative alla faida fra le famiglie dei Mamia e dei Vasa, avvenuta in Gallura, dal 1849 al 1856.
Sono passati circa 120 anni dalla sua pubblicazione eppure il fascino di quest’opera resiste ancora saldamente. Il volume viene ancora ristampato e, soprattutto, venduto. Probabilmente il motivo del successo sta nell’essenza stessa della figura emblematica di Bastiano Tanxu, sordomuto dalla nascita, che da figura di secondo piano nell’ambito della storia reale, grazie all’abile penna del Costa, diventa il protagonista assoluto di tutta la vicenda.
Sull’argomento narrato nel libro sono stati versati fiumi d’inchiostro, tuttavia nessuno ha cercato di risalire alla realtà storica dei luoghi e delle vicende che, in maniera romanzata, sono raccontate dal Costa. Tutti i trattati sull’argomento sono pieni di enfasi, più o meno accettabili dal punto di vista letterario, non lo sono dal punto della descrizione della realtà degli avvenimenti di quel periodo, portando ad uno stravolgimento dei fatti storici alterandoli in molti dei loro aspetti.
Partendo da questo dato di fatto, è stato fatto uno studio degli avvenimenti, descritti nel libro del Costa, per cercare di saperne di più dal punto di vista della verità storica. La ricerca basata principalmente su documenti d’archivio o tradizione orale del luogo dove si svolsero i fatti, e in misura minore sulle pubblicazioni esistenti, ha portato a una ricostruzione delle diverse vicende che, in taluni casi, è risultata molto diversa da quella descritta dal Costa il quale, in alcuni passaggi, rielaborò nomi, luoghi e fatti per esigenze letterarie, o più prettamente commerciali.
Ne è venuto fuori un quadro abbastanza concreto della situazione sociale ed economica, e quindi degli avvenimenti, di quel triste periodo, anche se qualche punto rimane ancora un po oscuro.

IL PERIODO STORICO
Sulle cause della faida si sono scritte diverse versioni, però tutte poco aderenti alla realtà; piuttosto che analizzare a fondo la situazione, partendo dal momento storico si preferisce contornarla di un alone di mistero, talvolta romantico, affermando che fu originata dal mancato rispetto di una promessa di fidanzamento, oppure si propone di liquidare la questione in maniera più semplicistica, come derivata da una lite successiva ad uno sconfinamento di bestiame.
In realtà senza la penna del Costa, che ricamando una storia a volte fantasiosa incentrata sulla terribile, e allo stesso tempo pittoresca e patetica, figura del sordomuto Bastiano Tanxu, sarebbe caduta nel dimenticatoio, o malamente ricordata come una delle tante inimicizie sbocciate in Sardegna nell’Ottocento.
In effetti le cause scatenanti sono molteplici e non si può risalire ad esse senza accennare alla situazione sociale del tempo.
Le radici della faida vanno ricercate principalmente nella generale situazione di dissidi e malumori, ai quali non è estraneo il famigerato Editto delle Chiudende. Tale provvedimento è risaputo che causò una lunga serie di soprusi, e quindi di conflitti, che, accumulandosi con il passare del tempo, si estrinsecarono in una lunga serie di fatti di sangue, intorno alla metà del secolo.
Tali inimicizie, si sviluppavano principalmente nelle campagne e, considerato che lo Stato era assolutamente assente per assicurare un minimo di legalità e di giustizia, dovevano per forza di cose sfociare immancabilmente nella vendetta personale.
Da molti anni poi, una delle attività più remunerative era il traffico di contrabbando con la vicina Corsica; per cui era abbastanza diffusa una certa cultura dell’illegalità.
Il contrabbando prosperava da sempre lungo il litorale, dove le numerose calette costituivano sicuri, e soprattutto nascosti, punti di approdo per le agili gondole di Bonifacio che trafficavano fra le due isole. Luoghi come Tinnari, Littu di Zoccaru, Canneddi, Cala Falza, Li Scalitti, Cala di L’Agnuli, La Gruzitta, Cala Sarraina e Lu Strintoni erano teatro quasi quotidiano di approdo dei contrabbandieri, che talvolta venivano sorpresi dalle imbarcazioni guardacoste della Regia Marina. Si ha notizia di numerosi conflitti a fuoco tra miliziani e fuorilegge, sin dal Settecento.
D’altra parte il contrabbando era una delle poche risorse economiche che poteva garantire la sopravvivenza e la possibilità di poter pagare tasse e balzelli, che in quel periodo erano molto gravosi.
Una cosa, non da poco, da ricordare è che i numerosi soprusi, subiti per circa quattro secoli sotto Aragonesi prima e Spagnoli poi, non erano certo diminuiti con l’avvento dei Savoia, anzi erano addirittura diventati più onerosi, grazie alla poca cura, e alla incapacità congenita, dei governanti piemontesi inviati in Sardegna.
A tutta questa serie di cose si deve aggiungere l’indole dei pastori, che soggiornavano nelle vaste, lande scarsamente popolate, poco incline a sopportare il giogo dell’autorità, che per loro significava solamente leva e tasse; tali imposizioni non furono, in pratica, mai accettate.
Solamente un secolo prima, nel territorio teatro della faida, nella località di Cuccaru, vi era stato il più grosso concentramento di fuorilegge della storia di Sardegna; praticamente fu una aggregazione talmente copiosa da costituire un vero e proprio villaggio, che accoglieva individui viventi alla macchia, anche dall’Anglona e dalla Corsica. Per alcuni anni, furono impiegati diversi reparti militari, che dopo una serie di alterne vicende, talvolta vere e proprie battaglie campali, riuscirono a bonificare il territorio. Tuttavia il Monte Cuccaru, continuò ad offrire rifugio a latitanti isolati sino alla fine dell’Ottocento.
Nelle campagne pertanto vi erano in circolazione diversi pericolosi individui che facevano del delinquere la loro professione. Tra questi Giovanni Demuro, noto Zirinnau, che era alla macchia in quanto ricercato per l’omicidio del vignolese Salvatore Bianco, avvenuto il 30 dicembre 1841, nelle campagne di Vignola. In seguito, durante la vita alla macchia, essendosi invaghito di una giovane pastorella vignolese, provvederà a sbarazzarsi della propria moglie, Domenica Altana, uccidendola personalmente il 28 ottobre 1856 in Montirussu (Aglientu), con la collaborazione del suo degno compare, Leonardo Dalmassso noto Garroni, contrabbandiere di origine corsa, ma ufficialmente residente a Tempio. Entrambi furono poi catturati e processati, a Sassari nel 1862: il Demuro fu condannato all’impiccagione e la sentenza fu eseguita a Tempio; il Garroni invece se la cavò con una condanna ai lavori forzati a vita.
Di uxoricidio, era stato accusato un altro celebre latitante di quel periodo, Godiano Serra “Cunconi”, delle campagne di La Balestra (Aggius). Assieme ad altri suoi compari come Leonardo Tirotto di Cascabraga (Trinità d’Agultu) e Leonardo Mamia di Nigolaeddu (Trinità d’Agultu) si era reso artefice di una lunga serie di delitti fra i quali il più praticato era il furto di bestiame. Pare che fosse dedito anche all’attività di sicario. Alla fine di febbraio del 1841, nelle campagne di Vignola, in località Lu Naragoni, tese un agguato al pastore Giovanni Pietro Addis Melaju, che riuscì a scamparla. In quel periodo vi era una profonda inimicizia proprio fra i Melaju e i Tirotto, parenti del Serra.
Oltre gli esempi citati, vi è da dire che i latitanti, ricercati in massima parte per reati contro il patrimonio, erano veramente molto numerosi. I resoconti dei processi, celebrati in quegli anni in Corte d’Assise a Sassari, sono pieni di nominativi di persone residenti nel territorio di Agultu e Vignola. I reati più comuni erano l’omicidio, tentato o consumato, il furto di bestiame, l’evasione fiscale, il contrabbando e la resistenza a pubblico ufficiale, naturalmente armata, quando i militari capitavano a tiro.
Questa era la situazione precedente il fatidico anno 1850, indicato da sempre come quello di inizio della faida. Non si può però fare a meno di elencare una lunga sequela di fatti delittuosi che aveva insanguinato le contrade già nel decennio precedente.
Il 18 giugno 1848, nell’abitato di Aggius, era stato ucciso il notaio tempiese Bartolomeo Panu. Quindi in rapida sequenza erano stati trucidati: Giovanni Antonio Doro Sbettigu di anni 20, ucciso in Monti Careddu il 3 ottobre 1848; nell’occasione fu ferito anche un occasionale compagno, Giovanni Battista Spezigu che ebbe la sfortuna di trovarsi nei pressi; Gavino Maddau di anni 30, ucciso il 4 marzo 1849, nei pressi della chiesa campestre di San Pietro di Rudas; Giovanni Antonio Altana, anni 30, ucciso il 31 agosto 1849; Luciano Addis “Melaju”, anni 55, ucciso il 29 ottobre 1849; Giovanni Pietro Tirotto, anni 40, ucciso il 28 febbraio 1850, poche settimane prima del ferimento di Pietro Vasa.
Da notare che nella primavera del 1849, Pietro Vasa e Mariangela Mamia erano felicemente fidanzati e si era ben lungi dall’immaginare quello che stava per succedere.
Proprio nel mese di maggio di quell’anno 1849, quando, secondo quanto riportato dal Costa, si svolse la cerimonia dell’abbrazzu, a poca distanza dallo stazzo abitato dal Vasa erano accaduti due orribili fatti di sangue: il giorno 25, presso Lu Muddetu, era stato assassinato Francesco Aunitu noto “Mussignori” di anni 40; il giorno successivo, 26 maggio fu la volta di Sebastiano Pileri “Aminosu” di anni 39, trucidato in località La Lamma, sotto gli occhi della figlia tredicenne. Di tale efferato delitto furono imputati i fratelli Michele e Antonio Pileri, abitanti nello stazzo di Lu Rotu, presso Trinità d’Agultu, e quindi dirimpettai con i Vasa. Fra i testimoni accusatori vi erano i fratelli Matteo e Antonio Vasa, zii paterni di Pietro, e la sorella di quest’ultimo, Giovanna Angela, nonché Michele Tanxu, fratello del Muto.
Da tutto questo si intuisce il tipo di rapporto di “buon vicinato” che intercorreva tra i Vasa e i Pileri.
Se poi si aggiungono i forti contrasti tra Pietro Vasa e Salvatore Pileri, si capisce che, da quel momento, ogni pretesto sarebbe stato buono per dare libero sfogo all’odio e alla rabbia fino a quel momento repressa.

I LUOGHI
In linea di massima i principali avvenimenti si svolsero in quella fascia subcostiera del Golfo dell’Asinara che partendo dalla foce del Coghinas arriva sino al Rio di Vignola.
Ancora oggi è una zona scarsamente popolata, nonostante il notevole sviluppo di strutture abitative, destinate però ad uso turistico.
All’epoca dei fatti relativi alla faida, esisteva una miriade di stazzi abitati, sperduti nelle impervie e selvagge campagne. La zona viveva in quel periodo il suo boom demografico, conseguenza diretta del fatto che sempre più famiglie si stabilivano definitivamente in quelle contrade.
Per secoli tutto il territorio era stata una distesa abbandonata dove regnava l’incuria e la malaria. Da documenti dell’epoca medievale, si ha notizia di diversi centri abitati esistenti nella regione durante le prime fasi del periodo post Giudicale. Il documento più conosciuto è l’Atto di Infeudazione concesso dal Re Alfonso V, il Magnanimo, a Rambaldo di Corbaria nel 1421; in esso sono riportati i nomi di una serie di villae facenti parte del vasto possedimento. Tra queste, facevano sicuramente parte della zona in questione, se non altro per l’assonanza con toponimi tuttora in uso: Agusthu, Monte Carello e Vinyolas.
Nello stesso documento si riporta che molti di questi villaggi erano ormai disabitati da almeno cinquanta anni, a causa di continue pestilenze e carestie; fra questi, anche quelli succitati.
In seguito sempre per gli stessi motivi anche altri villaggi, in pratica tutta la vasta regione, si spopolarono completamente. Conclusasi l’epoca Giudicale, con l’avvento degli Aragonesi, la situazione non era migliorata, in quanto nel frattempo le coste erano diventate insicure per le continue incursioni di pirati barbareschi. Costoro sbarcavano all’improvviso, nelle giornate di nebbia; protetti dalla foschia arrivavano non visti in quei lidi, razziavano bestiame e altri prodotti dell’agricoltura, soprattutto cereali, catturando, spesso, anche qualche ignaro pastore solitario, che conducevano via come schiavo. Ancora oggi sono ben vivi, nella tradizione orale, racconti e leggende su questi tragici avvenimenti.
Tutto questo portò allo spopolamento totale delle zone più vicine al mare. Fino alla metà del Seicento, in tutta la Gallura gli unici villaggi esistenti erano situati all’interno, addossati alle pendici del Limbara; solo uno, Terranova Pausania (Olbia) era sulla costa.
A partire dalla fine del XVII secolo, si assistette al progressivo ripopolamento del territorio, ad opera di abitanti della vicina Corsica, trasferitisi in Sardegna per diversi motivi, non tutti di tipo economico. In seguito, essendo le coste diventate più sicure, per la minor pressione esercitata dai pirati, anche a causa di una migliore organizzazione difensiva, si ebbe un incremento di tale fenomeno di colonizzazione.
Nella regione in questione il ripopolamento fu originato da pastori provenienti dai paesi più vicini della Gallura interna come Aggius, Bortigiadas e Tempio; in misura minore da altri centri galluresi e dell’Anglona.
Nelle prime fasi del fenomeno si trattava di migrazioni temporanee di pastori che, dai villaggi, nelle loro transumanze, si spingevano fino alle zone disabitate, nel tardo autunno per poi rientrare al villaggio d’origine, all’inizio dell’estate, quando era terminata l’annata agricola.
Durante questo periodo, all’inizio, soggiornavano in strutture di fortuna utilizzando come abitazione qualche nuraghe o, più spesso le spelonche scavate nella roccia dagli agenti atmosferici. In seguito furono costruiti i “cuponi”, capanne circolari di pietre a secco con il tetto ricoperto di frascame, in pratica gli antenati della casa dello stazzo.
La prima fase della colonizzazione, caratterizzata dalla presenza di insediamenti temporanei, presentava quindi, in prevalenza, un’economia di tipo pastorale allo stato brado. In seguito, con il formarsi dei primi insediamenti fissi, si intrapresero anche attività agricole e di allevamento più intensivo.
Da sempre, e fino agli anni Quaranta del secolo scorso, una delle attività predilette era il contrabbando con la vicina Corsica. Già dal Settecento si praticava con estremo profitto: si esportavano derrate alimentari, per la maggior parte di provenienza furtiva, e si vendevano nei mercati di Bonifacio, Ajaccio, Sartena e Porto Vecchio. Si importavano invece preferibilmente armi, polvere da sparo, tabacco che venivano poi rivenduti nei mercati di Tempio e dintorni.
Un ulteriore traffico era costituito dallo scambio reciproco di latitanti, ricercati per vari motivi e che cambiando isola, avevano la certezza dell’impunità, e soprattutto, nella nuova residenza, si industriavano per trovare inedite forme di guadagno illecito.
Non di rado i trafficanti ingaggiavano combattimenti con le navi regie, addette al controllo delle Bocche. Il personale delle torri costiere di Isola Rossa, Vignola e Longonsardo, che doveva vigilare per impedire il trasbordo clandestino, spesso era in combutta con i contrabbandieri.
Questa era la situazione delle regioni sub costiere nei primi anni del secolo XIX, con un numero sempre più alto di colonizzatori che si riversavano, in maniera stabile, nelle vaste lande abbandonate ed incolte.
Nel secondo quarto dell’Ottocento si ha un consolidamento del fenomeno, anche come conseguenza dell’Editto delle Chiudende, che però porterà, come si è detto, ad una serie di conflitti, culminati nelle faide della seconda metà del secolo. Da rilevare che nel periodo in questione si assistette alla nascita di numerosi aggregati rurali di una certa rilevanza demografica, che in molti casi andarono poi a costituire tutta una serie di nuovi villaggi. Normalmente, da polo d’attrazione funzionarono le chiese campestri che, da semplice centro d’aggregazione temporaneo, nei giorni della festa del santo, con il tempo portarono alla formazione di unità abitative fisse e di conseguenza alla formazione di nuovi paesi.
Il fenomeno raggiunge la sua massima espansione, negli anni a cavallo fra le due guerre mondiali. Dopo il 1950, si assiste al fenomeno di migrazione dalle campagne verso i nuovi centri abitati; il cosiddetto boom economico e l’avvento del turismo, con l’affermarsi di nuovi sistemi economici e nuovi modelli di vita, portano in pratica alla fine della civiltà dello stazzo.
Negli anni della faida il fenomeno migratorio era in una fase molto avanzata; esistevano già tutta una serie di infrastrutture abitative, occupate per tutto l’anno dai loro proprietari che, oltre l’allevamento, praticavano anche la coltivazione dei terreni, da dove traevano il necessario sostentamento per loro e per i propri congiunti, che risiedevano con il capofamiglia, a differenza di quanto avveniva nel resto della Sardegna.
Con la trasformazione da pastori, quasi nomadi, ad agricoltori stanziali si hanno i primi conflitti; d’altra parte il dualismo pastore-contadino in Sardegna è stato sempre motivo di attrito che spesso andava a sfociare nella vendetta personale.
Ed è in quest’ambiente che si sviluppano i primi focolai di quello che diventerà il “devorante incendio” che brucerà tutto senza risparmiare nessuno, nemmeno donne e ragazzi adolescenti.

LE SINGOLE LOCALITÀ
Le principali località teatro degli avvenimenti di quegli anni, non tutte citate dal Costa:
La Gjunchizza (Trinità d’Agultu e Vignola – OT)
Nei pressi della chiesa campestre di Santa Maria di Vignola. Nella vasta tenuta della famiglia Mamia, vi era la casa dello stazzo dove avvenne la cerimonia dell’abbrazzu, descritta dal Costa. Oggi la proprietà si trova inglobata nella tenuta dell’azienda vinicola Monte Spada. La casa dei Mamia è stata demolita alcuni anni fa.
Lu Naragheddu (Trinità d’Agultu e Vignola - OT)
Località situata un paio di chilometri ad ovest dell’attuale abitato di Trinità d’Agultu, in direzione Badesi. Era lo stazzo dove risiedevano i Vasa e i Pileri. Attualmente, alcuni ruderi di edifici stanno a dimostrare l’antica consistenza demografica del sito. Nel punto dove sorgeva la casa di Pietro Vasa vi sono oggi alcuni alberi di mandorlo.
Li Colti (Trinità d’Agultu e Vignola – OT)
A breve distanza dal’abitato di Trinità d’Agultu, in una vallata caratterizzata dalla presenza della chiesa campestre di Sant’Antonio da Padova. Era la residenza dei Mamia “Verri” e dei Tanxu.
L’Avru (Viddalba – SS)
A valle della chiesa campestre di San Gavino di Petra Maina. Era la residenza della famiglia Pes, parenti di Pietro Vasa che ospitarono sia lui che il cugino Sebastiano Tanxu, durante la loro vita alla macchia successiva all’uccisione di Michele Mamia.
Trinità d’Agultu (Trinità d’Agultu e Vignola – OT)
Attualmente vi risiedono stabilmente circa 1500 abitanti; all’epoca dei fatti vi avevano domicilio solo il prete e la famiglia di un artigiano che svolgeva anche le funzioni di “eremittanu”.
Secondo taluni storici, il paese sorgerebbe nel luogo dove nel Medio Evo vi era un villaggio chiamato Aghustu (o Laghustu, secondo altre fonti). A parte l’assonanza del nome medievale con quello odierno, tale ipotesi non è stata però suffragata dal rinvenimento di reperti attestanti l’esistenza di un villaggio, anche se nei dintorni dell’attuale centro abitato c’è qualche affioramento, però difficilmente databile, in quanto non è stato oggetto di studio accurato. Oltretutto vi sono anche i ruderi di due chiesette, dal culto tipicamente bizantino, Santa Barbara e Sant’Orsola, alla periferia del paese, non distanti fra di loro, che farebbero pensare all’esistenza di un centro abitato.
La chiesa della SS. Trinità, che dà il nome al paese, secondo la tradizione orale, invece risalirebbe al Settecento, quando un fuorilegge che contrabbandava con la Corsica, prelevò una statua della Trinità, da una chiesa fatiscente, nel sud della Corsica, per trasportarla in Gallura e edificare un santuario nella sua proprietà. La sua costruzione risalirebbe al 1730 circa; nella seconda metà del secolo si richiese più volte, alle competenti autorità, l’istituzione di una parrocchia, per l’assistenza spirituale ai numerosi pastori, dimoranti nella zona.
Dopo un ampliamento e restauro, avvenuto ai primi dell’Ottocento, finalmente, nel 1813, fu istituita la parrocchia, alla cui custodia si alternavano diversi sacerdoti nominati dal rettore di Aggius dal quale dipendevano. Costoro soggiornavano, in una casupola adiacente la chiesa, solo nel periodo da novembre a giugno, quando più massiccia era la presenza di pastori nelle zone limitrofe. Dalla seconda metà del secolo, quando già la faida tra Vasa e Mamia era nella fase conclusiva, il sacerdote di turno fu obbligato a risiedere tutto l’anno nella parrocchia campestre.
La chiesa, con il passare degli anni, diventò il punto di riferimento per tutti i pastori degli stazzi esistenti nella zona che comprendeva tutta la regione di Badesi, incluse le frazioni di Lu Muntiggjoni, La Tozza e L’Azzagulta, praticamente fino al fiume Coghinas, oltre a quelle di La Paduledda, Cascabraga, Li Colti, Li Lizzi Longhi, Lu Rotu, Lu Capruleddu, Nigolaeddu e Tarra Padedda. La sua centralità religiosa è dimostrata anche dal fatto, che ancora sino a pochi anni fa, il paese, localmente, era chiamato “La ‘Jesgia”.
La Paduledda (Trinità d’Agultu e Vignola – OT) Attualmente è una tranquilla borgata in forte espansione urbanistica, data la sua vicinanza con la costa. Pur non essendo praticamente menzionata dal Costa, la località è da considerare il vero epicentro delle inimicizie. Nei suoi dintorni, fino a qualche anno fa, era facile rintracciare, scolpite nella viva roccia, le numerose croci attestanti i luoghi dove furono assassinati molti individui delle due fazioni.
Aggius (Aggius – OT).
All’epoca dei fatti, tutti i territori succitati ricadevano sotto la giurisdizione amministrativa del Comune di Aggius. Il paese ne fu toccato solo marginalmente, in quanto le vicende narrate nel libro si svolsero nell’ambito del suo vasto territorio. Da un rapido esame sui luoghi di residenza, degli uccisi in quegli anni, si scopre che solo due abitavano ad Aggius: Antonio Mamia e il figlio Michele, che peraltro erano originari di Vignola. Eppure il paese era stato classificato come “il più feroce tra i villaggi sardi”.
Tra le altre vittime, un paio erano residenti nelle campagne di Viddalba, uno a Vignola e tutti gli altri nella zona di Agultu.

Biografie dei principali protagonisti

ANTONIO MAMIA
Antonio Addis Mamia, era nato nel 1795, in La Gjunchizza, nelle campagne di Vignola; figlio primogenito di Pietro Mamia e di Maria Maddalena Satta.
Il padre Pietro Mamia, soprannominato “Uccitta”, era un celebre bandito. Alcune sue imprese sono ricordate dall’Angius, in Casalis, che le racconta così: “Fu assediato un giorno nel suo ovile da circa 60 uomini delle parti nemiche, e da una compagnia di soldati venuti improvvisamente dalla parte di mare: tuttavia egli uscì fra loro, e senza essere offeso da alcuno de’ cento colpi che si fecero contro lui, nè patì altro danno che la perdita del bestiame sopra il quale si sfogò tutta la vendetta. Spedissi nuovamente contro lui una banda di soldati sotto gli ordini d’un animoso capitano, il quale quando vide scemare giornalmente in Vignola il numero de’ suoi soldati, andò a porsi in Agultu, luogo frequentato dallo stesso Mamia e abitato da’ suoi parenti. Quivi quattordici di lui cugini governati dal loro zio Andrea Tanxu, uomo ottuagenario e non pertanto così robusto e coraggioso come un uomo di 35 anni, poterono in tre diversi assalti uccidere non pochi soldati, e obbligare i superstiti a ritirarsi".
Grande razziatore di bestiame, Pietro Mamia, assieme ai fratelli Giacomo e Michele e alcuni componenti della famiglia Pileri, ai primi dell’800, fu protagonista di una sanguinosa inimicizia, prima contro i Malu Tortu e Bianco Lepori e, in seguito, contro gli Addis Mattola.
Assieme alle famiglie alleate dei Carbini Brandincu di Nigolaeddu, i Tirotto Mamia di Cascabraga e i Pirodda di La Paduledda aveva spadroneggiato, in mezza Gallura e Anglona, compiendo una quantità impressionante di azioni delittuose. Tra le altre “nobili professioni”, esercitava l’attività di contrabbandiere con la vicina Corsica, dove si recava spesso per vendere il bestiame e altre derrate, acquisite fraudolentemente. Ad Ajaccio ebbe modo di incontrare alcuni patrioti sardi, seguaci di Giovanni Maria Angioy, rifugiatisi in Corsica dopo il fallimento dei moti rivoluzionari di fine secolo XVIII. In particolare incontrò il notaio cagliaritano Francesco Cilocco e il sacerdote di Torralba Francesco Sanna Corda che progettavano di invadere la Sardegna, cacciare i Savoia e costituire un libero stato repubblicano, ispirato agli ideali della Rivoluzione Francese: “libertè, egalitè e fraternitè.
Il Mamia non solo aderì al loro progetto, ma promise un cospicuo numero di persone armate, che avrebbero dato man forte nel momento in cui fosse cominciata la rivoluzione. In realtà, sin dai primi approcci, progettava il più infame tradimento. Infatti, segretamente, prese accordi con il giudice Lomellini, comandante della piazza di Tempio, promettendo loro le teste dei congiurati, in cambio dell’impunità per lui e altri quattordici suoi parenti, ricercati vivi o morti per i più feroci reati contro il patrimonio e contro le persone.
Contemporaneamente continuò a frequentare gli angioiani, allo scopo di seguirne le azioni e informare il Lomellini.
I rivoluzionari sbarcarono nella piccola cala vignolese di La Gruzitta (Trinità d’Agultu e Vignola) il 13 giugno 1802; al posto dei duecento uomini armati fino ai denti, promessi dal Mamia, trovarono solo quest’ultimo che si giustificò con banali scuse; nonostante questo imprevisto, con un’abile azione in contemporanea, riuscirono a conquistare le tre torri costiere della Gallura: Isola Rossa, Vignola e Longonsardo (attuale Santa Teresa Gallura).
Dopo pochi giorni però il Governo Sabaudo passato alla controffensiva, anche grazie all’aiuto determinante del Mamia, riuscì a venire a capo della situazione: il Sanna Corda fu ucciso in combattimento presso la torre di Longonsardo, il Cilocco, abbandonato e tradito, fu catturato nei pressi di uno stazzo nelle campagne di Aglientu, portato a Sassari, fu torturato e in seguito impiccato.
Uguale sorte seguirono i suoi compagni d’avventura e due pastori vignolesi, Giovanni Battino e Francesco Frau, catturati nei pressi della torre di Santa Teresa. Pietro Mamia, assieme ai suoi scellerati compagni, per i servizi resi al Regno di Savoia, ritornò ad essere un uomo libero, senza più alcun conto da regolare con la giustizia.
Antonio Mamia non seguì le orme paterne; si racconta fosse un uomo savio e tranquillo. Sposò una sua parente che aveva lo stesso nome della madre: Maddalena Pes Satta. Dal loro matrimonio, all’epoca dell’inizio della faida, erano già nati sei figli: Giacomo (1831), il maggiore che, sin dai primi attriti con i Vasa si diede alla latitanza; Mariangela (1833), che dopo la rottura con Pietro Vasa sposò Giovanni Battista Spezzigu “Coxiganu”; Michele (1835), Anton Pietro (1838) deceduto per cause naturali all’età di vent’anni nel 1858, Leonardo (1841) e Pasqua (1847) che, a quattordici anni, nel 1861, sposò un non meglio identificato Pasquale Paggiolu.
Come si è già detto, Antonio Mamia era una persona savia e giudiziosa, spesso convocato come rasgiunanti nelle controversie fra pastori; buon amministratore delle sue proprietà di Vignola, in età matura fu anche consigliere comunale ad Aggius, e per un ridottissimo lasso di tempo fu anche vicesindaco.
Oltre allo stazzo natio di La Gjunchizza, che fu venduto subito dopo lo scoppio della faida, era proprietario di altri terreni confinanti: Li Pentimi, Pulchili e Larinzeddu; possedeva anche una casa in Aggius, avuta per eredità paterna, e dove risiedeva quasi stabilmente a partire dal 1840.
Essendo di indole naturalmente pacifica, la sua aspirazione era quella di trascorrere una vita serena e tranquilla, memore dei disagi avvenuti in famiglia grazie alle gesta di suo padre.
Tuttavia le sue aspirazioni si dovettero scontrare con la situazione del tempo. In gioventù si ritrovò nel bel mezzo di una faida tra la sua famiglia e quelle dei Carta e Muntoni. Dopo circa quattro anni di lotta, nel 1837, furono celebrate ufficialmente le paci; nonostante questo l’inimicizia e gli attentati proseguirono per diverso tempo.
Infatti, il 7 maggio 1838, un anno dopo le cosiddette paci, Antonio Mamia fu fatto oggetto di un agguato armato, dalla quale riuscì a scamparla. Mentre di primo mattino, in compagnia del padre Pietro, si recava da Aggius al suo stazzo di Vignola, furono fatti oggetto di alcune fucilate che non procurarono loro grandi danni.
Il fatto eccezionale, almeno per l'epoca fu però il seguito della vicenda: i Mamia invece di farsi giustizia da soli, denunciarono il fatto all’autorità competente, indicando come possibili autori dell’attentato elementi della famiglia rivale. I tempi erano cambiati anche per loro. Questo fatto però può servire a dare una misura della personalità del Mamia. Ovviamente in questo modo di comportarsi non poteva essere estranea l’esperienza del famoso genitore. Pietro Mamia, dopo la conclusione della vicenda del Cilocco e Sanna Corda, e sua conseguente riabilitazione, aveva abbandonato definitivamente la carriera di fuorilegge, e viveva in maniera totalmente retta, nel timore di precipitare nuovamente nel baratro delinquenziale dal quale era faticosamente uscito.
Tale modo di essere non poteva non influenzare il comportamento di Antonio Mamia che, in effetti, nella vicenda con i Vasa, cercò sempre di sistemare le questioni in maniera pacifica; solo la morte del figlio quindicenne lo convinse a rompere gli indugi e ad imboccare la strada della vendetta armata. Da rilevare che, quando fu ucciso il giovane Michele, la moglie di Antonio Mamia, Maddalena Satta, era in attesa di un bambino, che nacque qualche mese dopo, alla fine del 1850, e gli fu imposto, come da consuetudine, il nome dell’appena defunto Michele.
Cinque giorni dopo l’assassino del figlio Michele, il 20 agosto 1850, Antonio Mamia si recò a Li Colti, per chiamare a raccolta i suoi parenti, ivi residenti: i Mamia Malu, soprannominati Verri, i Fois “Taldìu”, i Peru “Cujareddu” e naturalmente i Pileri. Dopo i soliti convenevoli di comune accordo fu individuato il bersaglio da colpire: Caterina Bianco Razzu, madre di Pietro Vasa. Fu incaricato dell’esecuzione Salvatore Pileri, genero della vittima.
Era la fine della vita tranquilla da sempe desiderata. Da allora con l’inizio della mattanza, ad ogni avvenimento delittuoso a carico dei Vasa, era sempre ricercato dalla Giustizia, in quanto sospettato di esservi implicato, come esecutore o mandante, o come “persona informata sui fatti”.
Non bastasse quello, viveva sempre nel timore di qualche agguato, in quanto sapeva benissimo di essere considerato come il bersaglio più importante, dalla fazione avversa. In mezzo a tanto odio, riuscì però a salvaguardarsi alacremente, fino a quel tragico mattino del 24 giugno, festa di San Giovanni Battista, quando giunse anche per lui il tragico epilogo della sua vita terrena.
Il Mamia fu ucciso, in un viottolo adiacente lo stazzo Nigola Spano, tra Aggius e Tempio. All’agguato pare avesse partecipato un nutrito numero di elementi del clan avverso, fra i quali lo stesso Pietro Vasa, che riteneva di vitale importanza eliminare il mancato suocero, in quanto senza la sua autorità di capo riconosciuto della fazione dei Mamia, i suoi componenti senza più una guida avrebbero abbandonato i propositi bellicosi.
Si racconta che la sera stessa del suo omicidio, ci fu una grande festa, nello stazzo dei Vasa, nel cui piazzale si contarono almeno ottanta cavalli.
Dopo l’uccisione del Mamia, la moglie Maddalena Satta, si risposò con un suo cugino, Bartolomeo Pes.
Il posto del Mamia, come capo fazione, venne preso dal cugino Giovanni Michele Pileri, di Trinità d’Agultu che ritornò nel suo luogo natìo, dopo alcuni anni di latitanza, nella zona di Monti di Mola (Arzachena), in seguito alla chiamata da parte dell’Intendente Generale Raimondo Orrù, per dirimere la controversia, ed arrivare finalmente alle paci, celebrate a Tempio nel 1856.

PIETRO VASA
Era nato in Lu Naragheddu il 23 gennaio 1816, da Francesco Vasa e Caterina Bianco “Razzu”.
Viene descritto dal Costa come persona arrogante e permalosa. La tradizione orale parla di lui come di una persona irriducibile e caparbia, fino all’inverosimile; tale comportamento lo condurrà fino all’autolesionismo, facendo sprofondare lui e la sua famiglia, in un baratro senza fine. In genere è ritenuto il principale responsabile dell’origine della faida. Difficile pensare a Pietro Vasa come una vittima delle circostanze avverse, però probabilmente non furono tutte sue le colpe. Era semplicemente un personaggio, inserito nella società di quel periodo, perfettamente in linea con le consuetudini e le tradizioni tipiche del mondo agropastorale della Gallura, che in fondo imponevano un certo tipo di comportamento, legato a vecchi codici non scritti, ma da sempre conosciuti e rispettati da tutti.
Al riguardo vi è da ricordare che, secondo le consuetudini del tempo, dopo lo scampato pericolo susseguente all’attentato del 19 marzo, per la grazia ricevuta, elargì la somma di circa 48 scudi da destinare alla celebrazione annuale di una Messa di ringraziamento a San Giuseppe.
Fisicamente era di statura non eccelsa, di carattere facilmente irritabile, ma talvolta incline all’umorismo, che lo portava ad essere anche simpatico, nei rapporti con l’altro sesso.
Incominciò a frequentare la casa dei Mamia intorno al 1846, quando accompagnò un suo carissimo amico, tale Martino Muzzigoni “Salitu”, di Badesi, che doveva acquistare (come poi fece) un appezzamento di terreno di Antonio Mamia, nella zona di Li Colti.
Con la fidanzata, Mariangela Mamia, aveva in comune poche cose a cominciare dall’età: ben diciasette anni di differenza, forse un po troppi. Sicuramente al Vasa non interessavano più di tanto, sia la fidanzata, sia i rapporti col suocero Antonio Mamia, visto che nonostante il parere anche del tribunale dei “rasgiunanti”, non esitò a mandare all’aria il fidanzamento e tutto quello che vi era collegato.
Accade infatti, dopo che per ben due volte il consiglio dei rasgiunanti, gli diede torto, che acconsentì, nonostante tutto, a sposare Mariangela, nella chiesa campestre di San Pietro di Rudas, a metà strada tra Trinità d’Agultu ed Aggius. Ma il giorno fissato per la cerimonia si rese irreperibile.
Tuttavia il suo problema più grosso non erano i rapporti con i Mamia, ma quelli con il cognato Salvatore Pileri, che aveva sposato la sorella Giovanna Angela, “presa a fuggjitura”, e con il quale doveva convivere e, soprattutto, dividere i suoi possedimenti.
Il Pileri era una vera e propria spina nel fianco per il Vasa; nonostante avesse sposato la sorella di Pietro, non fu mai accettato in famiglia. Alla richiesta del Mamia di fare la pace con i Pileri prima del matrimonio con Mariangiola, il Vasa oppose un netto rifiuto; secondo il suo modo di vedere le cose, non poteva cacciare il Pileri dalla finestra di casa sua, per poi farlo rientrare dalla porta principale, solo perchè era parente della sua promessa sposa. Per cui vennero a scontrarsi l’orgoglio e la testardaggine del Vasa con l’orgoglio e la voglia di vivere in pace del Mamia, sentimenti in quest’ultimo amplificati dal fatto che, secondo la tradizione del tempo, era convinto di avere ragione, in quanto fra i due era il più anziano.
Il Vasa, dopo le paci di Tempio, che decretarono la fine delle ostilità fra le due famiglie, si sposò, a Trinità d’Agultu il 26 aprile 1857, con Maria Pes, sua lontana parente, abitante nello stazzo di Li Cuzi (Viddalba). In casa dei genitori di costei (Paolo Pes e Maria Vittoria Peru) aveva trovato amicizia e protezione, durante la latitanza alla quale si era dato, subito dopo i primi fatti di sangue. Trovò anche l’amore, nonostante la differenza d’età fra i due: diciannove anni separavano infatti Pietro da sua moglie Maria. Dopo il matrimonio, i due novelli sposi vissero insieme per quasi due anni, alternando la residenza tra lo stazzo di Li Cuzi e quello del Vasa in Lu Naragheddu.
Ormai in pace con i Mamia, era però braccato dai carabinieri, per le storie del passato e soprattutto perché istigati da Giovanni Antonio Ciacciaredda, il quale aveva capito che, per la sua futura tranquillità era necessario eliminare i due principali ostacoli: Pietro Vasa e suo cugino Sebastiano Tanxu, il Muto.
Dal suo matrimonio, il Vasa non lasciò discendenti: un figlio maschio, Francesco, morì all’età di due anni, mentre una femmina, nata dopo la sua morte, e alla quale era stato posto il nome di Pietrina, in memoria del padre, morì anch’essa in tenera età.
Maria Pes, dopo qualche anno, nel 1865, si risposò con Pancrazio Lepori di Codarruina. Rimasta ancora vedova contrasse un altro matrimonio con Giuseppe Andrea Stangoni, di Badesi. Morì, nello stazzo di Gjuncana (Viddalba) presso alcuni parenti, nel mese di luglio 1891.
Nel libro del Costa si accenna alla cattura del Vasa, avvenuta in circostanze piuttosto strane. La realtà fu che Giovanni Antonio Spano Ciacciaredda, dopo l’uccisione del Muto, per completare l’opera, come detto poc’anzi, doveva far fuori anche il Vasa. Presi accordi con i Reali Carabinieri in una fredda mattina di febbraio, organizzò un agguato, circondando la casa dove abitava il Vasa. Pietro riuscì a rompere l’accerchiamento e si diresse verso gli stazzi di La Paduledda, dove risiedevano alcuni suoi amici e parenti. Il Ciacciaredda, che conosceva bene le abitudini del Vasa, si appostò lungo la pista che conduceva a La Paduledda e riuscì a ferirlo, facendolo diventare facile preda per i carabinieri.
Pietro Vasa morì, il 18 marzo 1859 nel carcere di Tempio, come descritto nel libro. I suoi parenti affermano, tuttora, che il Vasa fu avvelenato in carcere. D’altra parte la sua ferita non dovrebbe essere stata così grave se riuscì ad arrivare a piedi sino a Tempio dal luogo dove fu catturato, distante circa 30 km.

SALVATORE PILERI
Soprannominato “Catteddu”, nel romanzo del Costa ha un ruolo da comprimario, quasi inesistente; in realtà all’interno della faida ebbe un ruolo da protagonista assoluto.
Era nato intorno al 1825, nello stazzo di Lu Rotu, presso Trinità d’Agultu, da Giovanni Tommaso Pileri e Filippa Casu. Si sa che era di corporatura imponente e forte e che, giovanissimo, si sposò con tale Vittoria Stangoni di Badesi, che morì subito dopo, nel 1847, probabilmente durante un parto, lasciandolo vedovo e con una bambina piccolissima.
Di carattere orgoglioso, allegro e giocondo fino a quel momento, il Pileri cambiò improvvisamente modo di essere, diventando una vera spina nel fianco per tutti coloro che avevano a che fare con lui. Un giorno ebbe a scontrarsi con il suo confinante Pietro Vasa, anche egli di carattere poco malleabile, ma la cosa si limitò solo alle parole, senza passare a vie di fatto.
Tuttavia da quel momento il Pileri non perdeva occasione per creare problemi al suo poco mansueto vicino: cercava in tutti i modi lo scontro; per esempio, di notte apriva varchi nelle siepi che recintavano i terreni del Vasa e vi introduceva le sue greggi a pascolare. Il Vasa lo minacciò più volte, ma il Pileri rispondeva con un sogghigno per dimostrare di non aver paura.
Il Vasa, constatata la pericolosità e l’arroganza del Pileri, passò allora a vie di fatto e i due vennero alle mani. Dopo questo fatto però ci fu un periodo di tregua, in quanto il Pileri, rimasto vedovo, era intenzionato a sposare Giovanna Angela Vasa, sorella di Pietro, e pertanto ci teneva a non urtare la suscettibilità del futuro cognato.
Giovanna Angela Vasa, proprio da Salvatore Pileri, era stata sottratta alle bramosie erotiche di un frate questuante di passaggio nello stazzo di Lu Naragheddu. A tale proposito si racconta che il Pileri inseguì poi il frate, che si era dato alla fuga; dopo averlo raggiunto lo uccise con le sue mani strangolandolo, per poi buttarlo nel torrente dal dirupo di Pinna. Dopo questo avvenimento Giovanna Angela si innamorò perdutamente di quell’uomo, che aveva salvato il suo onore dalle grinfie del focoso girovago. La cosa mandò in bestia il Vasa e la povera ragazza fu invitata a lasciare la casa paterna; tutti i parenti le tolsero il saluto, come era consuetudine.
Si sposarono alla fine del 1848 e l’anno successivo nacque il loro primo figlio. Il Pileri allora mandò a dire al cognato che reclamava anche tutti i suoi diritti sulla vasta proprietà dei Vasa, e che, con le buone o con le cattive, sarebbe riuscito a farli valere. Il tutto accompagnato dai soliti apprezzamenti e benedizioni nei confronti della suocera, Caterina Bianco “Razzu”, che si era sempre rifiutata di riconoscerlo come genero, anzi gli aveva fatto assoluto divieto di presentarsi davanti all’uscio della sua casa.
Nella primavera del 1849, il Pileri, approfittando della momentanea assenza del Vasa, in un terreno recintato di Lu Naragheddu, adibito alla semina, dopo aver aperto un passaggio ci introdusse sette capre a pascolare. Il Vasa, appena ritornato, le uccise tutte a fucilate e le collocò come chiudenda nel varco aperto dal Pileri.
Il Pileri tuttavia non si rassegnò facilmente e, tramite il tradizionale tribunale dei “rasgiunanti”, e anche minacciando denunce, riuscì a farsi risarcire dal Vasa, per una cifra di molto superiore per il danno subito.
Quando poi Pietro Vasa chiese in sposa Mariangela Mamia, Salvatore Pileri e il fratello Giovanni tentarono in tutti i modi di ostacolare il progetto. Addirittura, si dice, avessero fracassato il tetto della casa di Antonio Mamia, ad Aggius, per addossare la colpa del misfatto al futuro genero.
Durante la riunione avvenuta nello stazzo di Li Colti, il 20 agosto 1850, nei giorni immediatamente seguenti l’uccisione del giovanissimo Michele Mamia, pare sia stato proprio il Pileri a suggerire il nome della suocera, come vittima predestinata, incaricandosi al contempo in prima persona dell’esecuzione del progetto, con sommo piacere.
Dopo il delitto, la moglie Giovanna Angela, lo difese strenuamente, ma i Vasa lo denunciarono come esecutore materiale dell’omicidio della suocera. Le forze dell’ordine andarono a prelevarlo nella sua abitazione di Lu Rotu; in un primo momento riuscì a sgattaiolare, e a rifugiarsi in direzione della Serra di San Giuseppe, dove però si era appostato un altro drappello di cavalleggeri di Sardegna e fu catturato nei pressi dello stazzo di Li Lizzi Longhi. Condannato all’ergastolo, scontò diciotto anni di carcere, per poi ritornare in libertà. La lunga carcerazione non aveva intaccato la sua vena burlesca anche se, fondamentalmente, in lui prevalevano gli aspetti più spigolosi del suo carattere. Si racconta che un giorno, a chi gli chiedeva come fosse possibile vivere, per così tanti anni, rinchiuso tra quattro mura, e mantenere allo stesso tempo il suo carattere immutato, pare abbia risposto che in prigione, in fondo, non era così male e poi, nel suo caso, diciotto anni non erano poi molti, in pratica gli avevano dato un anno per ogni uomo che aveva ucciso...

MARIANGELA MAMIA
Figlia secondogenita di Antonio Mamia e di Minnena Satta, era nata a Vignola nel 1833.
Era sicuramente una donna dotata di grandi virtù morali se riuscì a sopportare degnamente tutti i lutti familiari causati dalla inimicizia con i Vasa.
Enrico Costa, che la conobbe ormai cinquantenne, ne esaltò anche la bellezza giovanile. Da lei apprese molti particolari della tragica vicenda, avvenuta una ventina d’anni prima.
Mariangela Mamia, dopo le paci di Tempio che, suggellarono la fine della faida, l’11 settembre di quello stesso anno 1856, si sposò con Giovanni Battista Spezzigu Coxiganu di Li Reni (Viddalba) ma residente ad Aggius. Ebbe la sventura di veder morire, in tenera età, i primi due figli avuti dal suo matrimonio: Martino (1863) e Anton Pietro (1864). Il terzo figlio, sempre di nome Anton Pietro, nato nel 1866, fu una persona molto conosciuta ed apprezzata in Gallura. Fu consigliere comunale dal 1897 e sindaco di Aggius dal 1899 al 1911. Era ancora in carica quando finì tragicamente i suoi giorni, ucciso da un sicario il 9 luglio 1911, nei pressi del paese di Aggius. Tale efferato delitto non causò tuttavia una nuova faida. Sulle sue cause furono fatte diverse ipotesi; qualcuno pensò ai vecchi rancori con i Vasa, mai pienamente assopiti; altri lo collegarono all’omicidio del professor Pier Felice Stangoni avvenuto presso Codarruina, il giorno di ferragosto del 1904. Si fece addirittura il nome di un famoso sicario di Rudalza (Olbia), tale Barore Nannia, che era stato visto in paese in quei giorni. Le indagini avviate dopo l’omicidio non giunsero ad alcuna conclusione; non si scoprì mai nè il mandante nè l’esecutore.
Mariangela Mamia, ormai avvilita e stanca per le tante vicissitudini della sua vita morì nella sua casa di Aggius, sedici mesi dopo la dipartita dell’unico figlio, il 18 novembre 1912.
MICHELE TANXU
Di Andrea Tanxu (1776-1841) e di Agostina Bianco Razzu (1793-1842), pertanto cugino di Pietro Vasa da parte di madre. Fratello del Muto, era nato in Li Colti nel 1820.
La famiglia dei Tanxu era abbastanza agiata. Andrea Tanxu aveva infatti casa e vigna nel paese di Aggius. Secondo la tradizione tipica dei pastori, però vi dimorava raramente, ad eccezione del mese di settembre quando rientrava ad Aggius per la vendemmia e per la festa del Rosario.
Normalmente la famiglia risiedeva nel loro stazzo di Bainzeddu, nella regione di Li Colti, non lontano dalla chiesa campestre di Sant’Antonio.
Vi è da rilevare il fatto che i Tanxu e i Mamia erano apparentati tra di loro e che vivevano da sempre in territori confinanti in amicizia e fratellanza. Ora, sapendo che i Tanxu erano parenti anche del Vasa, viene logico pensare che avrebbero potuto svolgere un ruolo di mediatori ed evitare così tanti lutti.
Tutto questo però solo sulla carta; nella realtà qualche tempo prima dell’inizio della faida, era successo che proprio Michele Tanxu, fratello del Muto, rimasto vedovo della prima moglie, si era risposato con una cugina di Pietro Vasa, trasferendo la sua residenza allo stazzo di Lu Naragheddu, vicino al cugino e rinsaldando ancora di più il loro vincolo di parentela. Questo fu probabilmente il motivo che lo spinse a prendere le difese del Vasa, quantunque fosse anche parente con i Mamia.
Uomo tosto e vigoroso, e dal temperamento energico, Michele Tanxu, dopo la morte del padre Andrea, aveva preso in mano le redini della famiglia, curandone in maniera egregia gli interessi economici, e prendendosi cura del fratello minore sordomuto. In quegli anni viveva in Li Colti, nello stazzo di Lu Caldu ‘rreu, assieme alla prima moglie, Isabella Addis, dalla quale aveva avuto due figlie: Maria Rosa e Agostina.
Era lui che si occupava di tutto quello che riguardava gli interessi familiari; dalle faccende ordinarie, come la cura della terra e del bestiame, a quelle straordinarie come quando, nel 1839, si presentò in Tribunale, a Tempio, per sollecitare la scarcerazione su cauzione del suocero Salvatore Antonio Addis Scriccia, arrestato con l’accusa di tentato omicidio, nei confronti dei fratelli Addis Melaju di Pitrischeddu (Aggius).
Nel bel mezzo di questa vita serena e idilliaca, nel 1847, gli venne però a mancare la moglie. Rispettò il tradizionale periodo di lutto di due anni e poi si risposò con una di Lu Naragheddu, Gavina Vasa, di molti anni più giovane di lui.
Quando maturarono le prime schermaglie tra il Vasa e i Pileri, Michele Tanxu si trovò quindi in prima fila, nella posizione di sostenitore del cugino; infatti non esitò ad incaricarsi personalmente di vendicarlo, dopo l’agguato del giorno di San Giuseppe.
Il Vasa era ancora convalescente, quando il Tanxu, tese l’agguato ai Mamia nel quale perse la vita. Era il fratello prediletto del Muto, l’unico in famiglia in grado di proteggerlo e capirlo, in quanto il Muto si esprimeva a monosillabi difficilmente comprensibili.
L’uccisione del fratello maggiore convinse anche Bastiano a prendere decisamente le parti del Vasa, che, intuendo la sua voglia di vendetta, si sostituì a Michele Tanxu, prendendo il Muto sotto la sua tutela e facendone il suo braccio armato, implacabile e preciso come il più fedele dei sicari.

SEBASTIANO TANXU
Soprannominato il Muto di Gallura. Era nato in Li Colti (Trinità d’Agultu e Vignola) nel 1827, sestogenito di otto figli naturali di Andrea e di Agostina Bianco “Razzu”.
Fu battezzato a Tempio, il 29 ottobre 1827. Il fatto che non sia stato battezzato nel luogo natìo, strano a prima vista, diventa comprensibile se si considera che gli abitanti delle campagne, per l’assistenza religiosa erano soliti rivolgersi, indifferentemente, a una o all’altra delle chiese esistenti nel territorio.
È il personaggio più importante nella storia narrata dal Costa, che lo presenta come un infallibile tiratore di fucile, belva implacabile nel perseguire la fazione opposta dei Mamia. Descritto in pratica come la mano armata, utilizzata dal cugino per inseguire i suoi turpi desideri di vendetta, nella realtà fu il classico coperchio delle pentole del diavolo, buono per tutte le occasioni per addossargli delitti mai compiuti, e scagionare i veri esecutori. Il Tanxu riassumeva tutte queste caratteristiche in maniera ottimale; tra l’altro, essendo sordomuto, non sempre poteva essere a cognizione di quello che si tramava ai suoi danni, e tantomeno scagionarsi personalmente a parole.
Sin dalla giovane età, visse da povero disgraziato infelice, evitato da tutti; basta pensare che i suoi non gli facevano nemmeno accudire il bestiame, a causa del suo carattere irascibile e violento; inoltre a causa della sua infermità non poteva sentire i richiami nè impartire ordini per un corretto governo degli armenti.
Secondo la tradizione, dal punto di vista fisico presentava una corporatura abbastanza minuta e smilza, capigliatura rossiccia, viso affilato e naso dal profilo inconfondibile. Nella sua giovinezza, visse quasi sempre a Li Colti; ad Aggius si recava solo nel mese di settembre, assieme a tutta la famiglia. Dopo la morte dei genitori pare non sia più ritornato in paese, vivendo sempre in campagna.
L’unico viaggio di una certa rilevanza fu quando, in compagnia di uno zio e di un altro coetaneo, si recò a Sennori, in una annata di particolare carestia, per transumare un branco di suini in un bosco ghiandifero. Vi è da sottolineare il fatto che le persone che lo conobbero personalmente, o che ebbero qualche rapporto con il Muto, oltre i parenti, furono pochissime.
Essendo sordomuto, non fu neanche convocato per la visita di leva. A proposito della sua infermità si potrebbe azzardare l’ipotesi che ci fosse qualche predisposizione ereditaria, nel casato della madre, i Bianco Razzu. Analizzandone le genealogie, si scopre che, tra la fine dell’Ottocento e la seconda metà del secolo scorso, nell’ambito dei discendenti di quel gruppo familiare si sono avuti almeno altri tre casi simili, più o meno recenti.
La vera tragedia del Muto fu però la carenza di affetti che lo colpì sin dall’adolescenza. Il 4 gennaio 1841, infatti morì il padre Andrea e, venti mesi dopo, il 2 ottobre 1842, la madre Agostina Bianco. Da allora visse oppresso dalla sorella Maria Rosa, arcigna e manesca, che lo riempiva di botte, e lo buttava fuori di casa, ogni qualvolta provava ad alzare la cresta; in questà facoltà era imitata dalla cognata, Maria Bianco, e dal di lei coniuge Michele Antonio Tanxu, che riversava nel fratello sordomuto tutte le frustrazioni represse che non riusciva a sfogare all’esterno della famiglia.
In questa situazione, l’unico punto di riferimento positivo per Bastiano era il fratello maggiore Michele, che rappresentava tutto quello che lui avrebbe voluto essere.
Dopo la morte di Michele, l’unica persona che si prese cura di lui fu il cugino Pietro Vasa, che lo portò con se durante gli anni della latitanza, nelle campagne di San Giuseppe di Cugurenza e San Gavino di Petra Maina. Quando il Vasa lo portò via, i suoi familiari si fecero il segno della croce, in quanto speravano di non rivederlo mai più.
Da allora quasi tutti gli omicidi perpetrati a danno dei Mamia furono attribuiti al Muto. Però almeno uno, quello forse più famoso, da documenti ufficiali pare non sia da attribuire al Tanxu: cioè quello del suo “mancato suocero” Antonio Stefano Pes, avvenuto la sera del 5 luglio 1857, nei pressi del suo stazzo di L’Avru, in località La Schina di Giagazzu (Viddalba).
Il Costa descrive l’avvenimento in maniera molto dettagliata: dai preparativi dell’agguato all’esecuzione dell’omicidio, fino a quando il vecchio Pes morente accusa il Muto, del suo assassinio.
In realtà dell’omicidio fu accusato un pastore di Nigolaeddu (stazzo presso Li Colti), Francesco Maria Carbini noto Brandincu, che fu catturato dai carabinieri il primo settembre 1857, accusato anche del tentato omicidio di un altro pastore suo confinante, Pietro Addis noto Monigu.
Il Carbini comparve davanti alla Corte d’Assise di Sassari il 28 novembre 1861, per essere giudicato sui due delitti attribuiti; riconosciuto colpevole per l’omicidio del Pes, fu condannato ai lavori forzati a vita. Con Regio Decreto di Grazia del 16 novembre 1873, la pena gli fu ridotta a trent’anni.
Il Muto ritornò a Li Colti nell’estate del 1857, dove però non si stabilì nella casa paterna, ma in un terreno adiacente dove si costruì un rozzo rifugio. Scomparve dopo qualche mese e nessuno seppe più nulla di lui.
Sulla fine del Muto, il Costa ricama una storia tragica, avvolgendo il tutto nel mistero e sciorinando ipotesi ben lontane dalla verità dei fatti. In realtà, alla fine di maggio del 1858, in località Santa Barbara, presso Li Colti, fu ucciso da Francesco Antonio Muretti, suo amico intimo, con il quale aveva condiviso i lunghi anni della faida e della latitanza.
Il Muto del quale Pietro Vasa sfruttando il suo odio per gli uccisori del fratello Michele, ne aveva fatto un sicario fedele e preciso, dopo la fine della faida era diventato un personaggio scomodo in tutti i sensi. Pertanto anche i suoi parenti avrebbero gradito una sua eliminazione. Dall’altra parte vi era Giovanni Antonio Spano noto Ciacciaredda (chiamato Giuseppe nel libro) che non avrebbe mai potuto coronare il suo sogno amoroso con Gavina (all’anagrafe Francesca Pes) fino a quando fosse rimasto in vita il Tanxu.
Alla uccisione del Muto collaborò anche un pastore di Viddalba Agostino Peru Mazzittoni, detto “lu Gregu”. Il Costa non fa il suo nome tuttavia è identificabile in uno dei tre uomini che “uscirono da uno dei crepacci di granito che sono alle falde di Cucurenza. Erano tutti armati di fucile, e col cappuccio tirato sugli occhi”.
Il ruolo determinante nell’epilogo della vicenda fu quello di Giovanni Antonio Spano “Ciacciaredda” , il quale si adoperò per l’omicidio del Muto con solerzia e abilità, promettendo al Macciaredda un salvacondotto in cambio della vita del Muto.
Dopo l’uccisione, il cadavere di Sebastiano fu sepolto nella zona di Littu di Zoccaru, a breve distanza dalla foce del Riu di Li Cossi. Al fine di nascondere ogni traccia, il tumulo, costituito da sabbia finissima, fu calpestato dal bestiame di un vicino ovile.
Il naso aquilino inconfondibile del Tanxu fu asportato dal resto del corpo e portato, come trofeo, a Giovanni Antonio Spano, al fine di dimostrargli che il Muto era stato definitivamente tolto di mezzo. Francesca Pes, non avrebbe mai acconsentito a seguire lo Spano essendo in vita il Muto, per timore di rappresaglie.
Secondo una tradizione orale esistente ancora oggi in L’Avru, la vista del solo naso non bastò a convincere lo Spano; pertanto i suoi uccisori, dopo due giorni disseppellirono il cadavere del Muto, e lo portarono all’incredulo Ciacciaredda. Il corpo dell’ucciso fu poi occultato in una pietraia nei pressi della strada che portava allo stazzo di Gambaidonna, non lontano da L’Avru. L’uccisione del Muto non causò altre inimicizie. I parenti non pensavano minimamente di vendicarlo, anzi, come si è detto, era diventato un personaggio scomodo da gestire e, per la propria e altrui tranquillità, erano ben felici di non averlo più fra i piedi.
Un mese dopo i parenti andarono dal parroco di Trinità d’Agultu, Giovanni Andrea Stangoni, per far celebrare una messa in suffragio dell’anima del Muto.
Il 24 giugno 1858 lo Stangoni scrisse l’atto conclusivo sull’esistenza di Sebastiano Tanxu annotando il fatto in una pagina del Liber Mortuorum della parrocchia di Aggius: “surdus atque mutus deficit ab ipsiusmet propinquis tamquam a vivis sublatus ad exequias celebrandas huic parochiae denunziatur. Celibis erat.

FRANCESCO ANTONIO MURETTI
Il famoso bandito “Macciaredda”, presunto uccisore del Muto. Nel libro del Costa, non compare mai il suo nome. Aveva sposato una cugina di Pietro Vasa, del quale era anche coetaneo, essendo nato il 5 febbraio 1816. I suoi genitori erano Salvatore Muretti “Macciaredda” e Margherita Addis “Melaju” e abitava in uno stazzo di Lu Muddetu, regione subcostiera ad ovest di La Paduledda.
Il Macciaredda, latitante da diversi anni, era un amico del Muto, forse l’unica persona in grado di avvicinarlo, superando la sua diffidenza. Assieme avevano vissuto la lunga faida condividendo i pericoli e le intemperie della vita alla macchia.
Lo Spano Ciacciaredda però sapeva come muovere le sue pedine. Avvicinato il Muretti gli prospettò la possibilità di ottenere il condono totale per i delitti dei quali era accusato, e ritornare a una vita normale, in cambio della pelle di Bastiano Tanxu. Il Muretti accettò e qualche tempo dopo in una collina nei pressi della chiesa di Santa Barbara, non lontano da Trinità d’Agultu, uccise il Muto a tradimento.
Anche il Muretti Macciaredda qualche anno dopo, esattamente il 19 maggio 1868, nei pressi della chiesa di San Pietro martire, fu colpito a morte, mentre in compagnia di un suo nipote si recava a Trinità d’Agultu, ... ma questa è un’altra storia...
La sua morte causò una nuova inimicizia che, dopo alcuni omicidi, fu conclusa con le paci celebrate a Trinità d’Agultu nel 1875. Per la buona riuscita delle paci, un ruolo decisivo fu quello svolto da Salvatore Muretti, soprannominato Carrozza, di professione carabiniere, figlio del defunto Francesco Antonio, e che tanto si impegnò in febbrili trattative prima di giungere ad una soluzione positiva.

GIOVANNI ANTONIO SPANO CIACCIAREDDA
Nel romanzo del Costa è Giuseppe, l’uomo che scrisse la parola fine a tutta la storia. Soprannominato Ghjuann’Antoni Mannu, era nato verso il 1830, da Luca Spano e da Vittoria Pes, quindi era nipote di Anton Stefano Pes. Di famiglia agiata e dal carattere turbolento, ne combinò un po di tutti i colori prima di approdare a L’Avru. Bravissimo tiratore con il fucile era ovviamente appassionato cacciatore. Le altre sue attività preferite erano domare buoi o cavalli selvaggi. Oltre queste attività, normali in quel periodo, ne praticava altre meno nobili. Non bisogna dimenticare che anche nel territorio di Bortigiadas in quegli anni si visse una lunga guerra tra famiglie. La faida iniziata intorno al 1830, vide contrapposte la famiglia degli Addis Zinilca da una parte e dall’altra quella degli Spano Scroccia, spalleggiati dagli Spano Ciacciaredda.
L’inimicizia terminò nel 1855, e fu anch’essa al centro di un romanzo intitolato “Notte Sarda” pubblicato, nel 1910, da Pietro Casu (1878-1954).
Come ogni faida degna di questo nome anche questa tra i Zinilca e gli Scroccia, contò decine di morti ammazzati, diversi giuramenti di pace eterna e anche una storia d’amore conclusasi in maniera tragica.
Sullo sfondo di questa faida, Giovanni Antonio Spano, all’età di 17 anni, per banali motivi, attentò alla vita di alcuni suoi concittadini: Giovanni Deiana, Giovanni Cossu Picciocu e Proto Oggiano, tenente dei barracelli.
Già all’età di vent’anni era una persona temuta e rispettata; qualche anno dopo, cancellati alcuni peccati di gioventù, eccolo agire in veste di Commissario di Campagna.
A L’Avru Ciacciaredda arrivò nei primi mesi del 1857, non certo a caccia di selvaggina, ma chiamato dalla zia acquisita, Domenica Oggiano, in quanto un tale sordomuto, cugino di Pietro Vasa, le insidiava la figlia, Francesca Pes.
In poco tempo sistema le cose: in primo luogo fa innamorare la giovane pastorella Francesca, e dopo pochi mesi la sposa in gran segreto a Bortigiadas, il 7 giugno 1857, con la complicità della suocera, di due testiA? ?i?moni compiacenti e, ovviamente, del sacerdote, nella persona di Giovanni Battista Peru, aggese.
A questo punto, dopo avergli soffiato la donna, poteva dedicarsi al Muto. Lo fece con grande solerzia: più volte tentò di stanarlo dai luoghi della sua latitanza. Sebastiano però riuscì ad eludere le imboscate; Ciacciaredda, gli tese anche un agguato, in località La Multa, gli sparò personalmente, e seppure da posizione propizia, incredibilmente non lo colpì.
Nel frattempo circa un mese dopo il matrimonio segreto di Bortigiadas, una mano oscura fece fuori Anton Stefano Pes, padre di Francesca.
Il Pes aveva scacciato dal suo stazzo sia il Muto che i suoi amici, per cui era logico che qualcuno complottasse per fargliela pagare.
In ogni caso il Tanxu era andato via da L’Avru ed era rientrato al suo luogo natìo, Li Colti.
È a questo punto che lo Spano incontra il Muretti Macciaredda e gli prospetta la possibilità di avere una lunga vita serena, senza più guai con la legge, in cambio della pelle del Muto.
Qualche mese dopo, come si è già detto, il Muto fu ucciso nei pressi del suo luogo natìo.
Archiviata anche la pratica relativa al Muto, per la sua completa tranquillità futura, rimaneva da sistemare solo Pietro Vasa.
Fu così che quel freddo mattino di fine febbraio del 1858, dopo averlo accuratamente preparato, mise in pratica il piano per la cattura del Vasa. Come già descritto, fu lo stesso Spano a ferire il Vasa e lo avrebbe certamente finito a sangue freddo, se, nel frattempo, non fossero sopraggiunti i carabinieri, che inseguivano il bandito.

FRANCESCA PES
Nel romanzo del Costa è Gavina, la giovane pastorella di L’Avru, che fece innamorare Bastiano Tanxu. Il Muto era arrivato a L’Avru, portato dal cugino Pietro Vasa. Qui si era stabilito e, in cambio di un letticello e di un tozzo di pane, si dedicava ai lavori dello stazzo, come portare qualche fascio di legna, zappare l’orticello o piccoli lavoretti artigianali nei quali era molto dotato.
Fu a questo punto che il Costa ricamò un’intensa storia d’amore. In realtà fra i due non ci fu assolutamente niente. A quei tempi, una ragazza non si dava in moglie a un minorato, come poteva essere un sordomuto. Quindi il suo era un amore senza speranza, quantunque le sorelle e la madre di Francesca non fecero niente per scoraggiare il focoso amante, anzi talvolta gli facevano balenare la possibilità di dargli in sposa l’oggetto del suo desiderio. Quando si resero conto di essere in un tunnel senza uscita, e conoscendo l’indole del Muto, sistemarono le cose chiamando in loro soccorso il cugino Ciacciaredda.
Gli avvenimenti piu' rilevanti in ordine cronologico
Il Costa parla di oltre settanta omicidi. In realtà furono molti di meno, secondo quanto risulta dai dati d’archivio, verificati più volte e pertanto da considerare attendibili.
Dalla consultazione degli archivi parrocchiali dei paesi interessati, emergono i seguenti dati: dal 19 marzo 1850, quando fu ferito il Vasa, al 26 maggio 1856, data delle paci di Tempio, sono stati registrati 27 omicidi, e non tutti ascrivibili a qualcuna delle due parti. È sicuro che non tutti venivano registrati negli archivi parrocchiali, però anche sulla base del confronto con altri dati si possono giudicare sufficientemente attendibili. Per esempio alcuni omicidi non registrati (Maria Maruddali, Pancrazio Oggiano, Pietro Spano, Paolo Addis Mattola) avvenuti nelle campagne tra Trinità d’Agultu e Bortigiadas sono sicuramente attribuibili alla faida. Anche aggiungendo questi si è sempre lontani dalla quantità riportata dal Costa.
Qui viene riportato un elenco dei principali avvenimenti delittuosi; alcuni di essi non sono sicuramente da attribuire alla faida. A questo proposito vi è da rilevare che, come sempre succede in questi casi, chi aveva un conto da regolare con qualcuno appartenente alle due fazioni in lotta, ne approfittò apertamente, in quanto il delitto sarebbe stato attribuito alla parte contraria.

19 marzo 1850: ferimento di Pietro Vasa.
Il Vasa fu colpito da una pallottola mentre, dalla chiesetta campestre di San Giuseppe di Cugurenza, rientrava al suo stazzo di Lu Naragheddu. Il fatto avvenne nel sito chiamato La ‘ena di li Cabaddi, dove ancora oggi si trova una sorgente, e dove il Vasa si era attardato concedendosi una pausa. Soccorso dai suoi parenti del casato Oggiano Tuxoni che abitavano nel vicino stazzo di Petra Luzana, adagiato su una improvvisata barella di frascame, fu trasportato a casa sua. Il parroco della Trinità d’Agultu, il tempiese Pietro Garrucciu, recatosi dal Vasa per somministrargli i sacramenti, alla fine si rifiutò di dargli l’assoluzione in quanto anziché perdonare i suoi feritori incitava il cugino Michele Tanxu alla vendetta. Questo fatto fece nascere un piccolo battibecco tra il Vasa e il Garrucciu che, probabilmente per paura di qualche rappresaglia, il giorno stesso abbandonò la parrocchia e non vi fece più ritorno. Rientrò ad Aggius e da lì, dopo qualche tempo, se ne andò a Tempio.
Il ferimento del Vasa fu la scintilla che accese definitivamente le polveri; ma chi erano stati i feritori? Al primo approccio furono accusati i Pileri che, approfittando della situazione di attrito con il mancato suocero, potevano far fuori Pietro Vasa addossandone la colpa ai Mamia. I Pileri, confinanti con i Vasa, ma parenti dei Mamia, erano certamente gente di pochi scrupoli, malvisti anche dal loro parente Antonio Mamia. Però lo stesso discorso si poteva fare per i Mamia che, volendo dare una lezione al Vasa, colpevole per il mancato matrimonio con Mariangela, avrebbero approfittato della ormai cronica inimicizia di costui con i Pileri per far ricadere la colpa su questi ultimi. Il clan dei Vasa comunque diede la colpa al Mamia, almeno in qualità di mandante.
Nel frattempo, Pietro Vasa, da tutti dato per spacciato, dimostrò invece di avere la pelle dura, e riuscì a guarire dalla ferita riportata nell’attentato. Ripresa la vita normale, il suo unico scopo, da allora in poi, fu quello di vendicarsi; il suo odio, ovviamente, lo riversò in misura maggiore nei confronti del mancato suocero, Antonio Mamia.

28/29 aprile 1850: uccisione di Michele Tanxu.
Il Tanxu, come si è detto, si incaricò personalmente di vendicare il ferimento del cugino Pietro Vasa. Qualche giorno dopo, a fine marzo, tese un agguato a Pietro Mamia, di Li Colti, ritenuto colpevole dell’attentato a Pietro Vasa, e lo ferì in maniera abbastanza grave, ma non mortale. Il Tanxu non pago del risultato ottenuto, qualche giorno dopo, tese un agguato al vecchio Michele Mamia che, in compagnia di Giovanni Maria Malu, stava dissodando un terreno di sua proprietà, in località Li Colti. Questa volta non gli andò altrettanto bene: la pronta reazione dei due che, data la situazione, portavano sempre le armi a tracolla, portò al suo ferimento. Michele Tanxu, vista la mala parata tentò la fuga, ma fu raggiunto, ormai agonizzante, dai due del clan Mamia che posero fine alla sua esistenza sgozzandolo con la “cultedda”. Il suo cadavere fu poi sotterrato nella località chiamata La Maccia di L’Acca, situata tra la Punta di Canneddi e Tinnari (Trinità d’Agultu e Vignola).

31 maggio 1850: uccisione di Giovanni Addis Nieddu.
Non meglio identificato; fu ucciso e il suo cadavere dato alle fiamme.

15 agosto 1850: uccisione di Michele Mamia.
Fu ucciso sulla strada che da Viddalba porta ad Aggius, mentre rientrava dal campo del Coghinas.
Ormai si era già in uno stato di guerra dichiarata fra Pietro Vasa e il suo mancato suocero, Antonio Mamia.
Il Vasa ritenendo il Mamia mandante dei misfatti perpetrati nei mesi precedenti, nei suoi confronti, organizzò un agguato per farlo fuori, lungo la strada che dal campo del Coghinas porta ad Aggius. Il Mamia, uomo previdente, tagliò invece per una scorciatoia e per la strada maestra passò il proprio figlio Michele, appena quindicenne. Il ragazzo fu ucciso presso lo stazzo di Gambaidonna, lungo la strada che partendo da Viddalba, andava a congiungersi con quella da Trinità d’Agultu ad Aggius.
Da taluni, fu ritenuto direttamente responsabile, dell’esecuzione materiale dell’omicidio, addirittura il capo clan, Pietro Vasa. In realtà a costui non interessava affatto l’uccisione del ragazzo, il vero bersaglio era Antonio Mamia. Il tragico avvenimento fu conseguenza del fatto che uno dei partecipanti all’agguato, Battista Vasa, di Monticareddu, disattese agli ordini di Pietro.

21 agosto 1850: Uccisione di Caterina Bianco “Razzu”, madre di Pietro Vasa.
Fu uccisa in Lu Naragheddu, non lontana dalla sua abitazione, nei pressi di una sorgente naturale, dove si era recata per attingere l’acqua.
Assieme all’omicidio di Michele Mamia, fu il fatto che fece perdere ogni speranza di ricomporre amichevolmente le liti fra le due fazioni. Pietro Vasa, pazzo di rabbia, e con il cuore ancora più pieno di odio verso i Mamia, da quel momento imboccò decisamente la strada della guerra totale.

8 novembre 1850: uccisione di Nicola Cioncia, anni 25.
Fu sepolto a San Pietro di Rudas. Era imparentato con i Vasa per parte di padre.

3 giugno 1851: uccisione di Pietro Zancanu, anni 50.
Fu sepolto a San Pietro di Rudas. Ritenuto un sicario dei Vasa.

11 giugno 1851: omicidio di Comita Pirodda “Alcatu”, di Giovanni e di Antonia Tirotto, anni 27
In relazione parentale con i Mamia da parte di madre, fu ucciso presso La Paduledda e sepolto nel cimitero di Trinità d’Agultu. Il presunto omicida era Giovanni Antonio Oggiano “Tuxoni”, parente dei Vasa.
Dal resoconto processuale a carico dell’omicida, si riesce a risalire al movente del delitto e si scopre che, anche se i due appartenevano alle due fazioni contrapposte, la faida c’entra marginalmente. Qualche tempo prima il Comita Pirodda, assieme al fratello Pietro, avevano accorpato illegalmente, alla loro proprietà un appezzamento di terreno dell’Oggiano, il quale fece ricorso al pretore di Aggius; il Pirodda allora, per ritorsione uccise un cavallo del Tuxoni, che si vendicò prontamente.
Dopo l’omicidio il Tuxoni si diede alla latitanza; fu arrestato quattro anni dopo, nelle campagne di Tisiennari (Bortigiadas). Le fasi della sua cattura furono abbastanza concitate, poichè l’Oggiano si difese strenuamente e riuscì anche a ferire l’appuntato dei carabinieri Cosimo Macis.
Il processo celebrato a Sassari nell’agosto 1856, si concluse con la condanna all’ergastolo dell’imputato. In questo processo, anche se poco attinente, risulta interessante la dichiarazione di Maria Leonarda Oggiano, teste citata dalla Difesa, la quale afferma che “nei giorni antecedenti la festa della Santissima Trinità d’Agultu, per correttezza e tradizione, in terra di Aggius non si ammazza mai nessuno”.

21 ottobre 1851: uccisione di Michele Addis “Scriccia”, anni 40.
Difficile stabilire i legami parentali, ma sicuramente appartenente alla fazione dei Vasa, per via delle sue relazioni con la famiglia Tanxu.
In questo periodo alcuni componenti dei due clan, cercarono di sfuggire alla faida cambiando luogo di residenza. Alcuni familiari del Vasa si rifugiarono dalle parti di Tergu, in Anglona, dove rimarranno fino alla cessazione delle ostilità. Altrettanto fecero alcuni membri della famiglia Pileri, rifugiandosi nella zona di San Pantaleo (Olbia) e Monti di Mola (Arzachena).

19 febbraio 1852: uccisione di Luca Oggiano.
L’omicidio avvenne presso lu Monti Spirratu; fu sepolto a Trinità d’Agultu. Probabilmente parente dei Vasa.

14 luglio 1852: uccisione di Antonio Pileri, anni 50.
Appartenente alla fazione dei Mamia, per vincoli di parentela. Sepolto a Trinità d’Agultu.

08 agosto 1852: uccisione di Agostino Pirodda “Boddu”, anni 35, sepolto a Trinità d’Agultu. Difficile attribuirlo ad una delle due parti; probabilmente era di quella dei Mamia.

28 maggio 1853: omicidio di Antonio Vasa, anni 58.
Fu ucciso in La ‘èna Longa (Nigolaeddu-Li Colti) e sepolto a Trinità d’Agultu. Figlio di Pietro Vasa e di Martina Cioncia, pertanto fratello del padre del Pietro Vasa, fidanzato di Mariangela Mamia.
All’indomani di questo omicidio, in una tumultuosa seduta del consiglio comunale di Aggius, fu deliberato di richiedere l’intervento del Governo, al fine di calmare gli animi e di far cessare le attività delittuose, che stavano facendo precipitare tutto il territorio in un baratro senza fine. Analoga richiesta era stata fatta il 18 dicembre 1851, all’indomani dei primi avvenimenti delittuosi.
Ad Aggius era stato insediato un presidio di bersaglieri, sequestrate armi nel villaggio, e arrestati diversi individui sospetti, anche nelle campagne. Tuttavia ciò non valse certo a raffreddare i propositi bellicosi degli abitanti degli stazzi.
Da rilevare che nella seduta del 1853, fra i consiglieri comunali, erano assenti sia il vecchio capo clan Antonio Mamia, sia Nicola Vasa, cugino di Pietro Vasa e quindi entrambi parti in causa.
Con una successiva delibera del 2 giugno 1854 il Consiglio comunale chiese che si “inviassero carabinieri a cavallo per lo sgombro dei sicari malviventi, poiché ora più che mai esacerbati gli animi delle complicate fazioni e i delitti di giorno in giorno progrediscono”. In pratica la situazione era estremamente delicata in quanto dovunque regnava il terrore e la paura di agguati era sempre nella mente di tutti.

24 giugno 1853: omicidio di Antonio Addis “Mamia” di Pietro e di Maddalena Satta. Sepolto ad Aggius. Secondo quanto riporta il Costa nei mesi precedenti l’agguato mortale al Mamia vi fu una certa tregua nelle uccisioni; la sua affermazione non è confermata dalle fonti archivistiche.

5 febbraio 1854: omicidio di Matteo Vasa, di Pietro e di Martina Cioncia, anni 58, ucciso in la Cunchiggjola-Cugurenza, sepolto a Trinità. Zio paterno di Pietro Vasa.

3 aprile 1854: omicidio di Agostino Peru Mamia noto “Cojareddu”, di Pietro e di Caterina Mamia, ucciso in Lu Capu di Maltuzzu-Li Colti, sepolto a Trinità d’Agultu.

12 aprile1854: omicidio di Gavino “Colbu” avvenuto in località L’Alba di la Ruda, presso Li Colti.

10 giugno 1854: omicidio di Nicola Moro, anni 35, ucciso in Cugurenza, dai carabinieri, ai quali si era ribellato.

13 luglio 1854: omicidio di Giovanni Antonio Pirodda, anni 55. Fu ucciso presso La Paduledda, sepolto a Trinità d’Agultu.

30 luglio 1854: omicidio di Giuseppe Andrea Peru, anni 49, ucciso presso il Riu Sirena, sepolto ad Aggius.

3 ottobre 1854: omicidio di Giovanni Battista Muretti Mamia, noto Bistenti, anni 40.

17 dicembre 1854: omicidio di Giovanni Maria Malu “Bagassu”, anni 50, pastore di Cascabraga. Il suo cadavere fu rinvenuto, orrendamente mutilato, nel luogo detto Lu Caminu Mannu, nei pressi di L’Alburu di la Bandera in territorio di Bortigiadas, nel cui cimitero fu poi seppellito.

10 luglio 1855: omicidio di Salvatore Pileri di Michele, anni 70, sepolto ad Arzachena. Uno dei tanti che era emigrato all’inizio della faida, onde evitare guai peggiori. Era del clan dei Mamia.

22 luglio 1855: omicidio di Andrea Bianco “Rana” di Pietro e di Gerolama Suelzu, sepolto ad Aggius.

8 novembre 1855: omicidio di Nicola Pirodda di Antonio e di Maria Vittoria Pirodda, anni 28, ucciso in la Paduledda, sepolto a Trinità d’Agultu.

14 novembre 1855: omicidio di Francesco Maria Carbini “Brandincu”, anni 41 (n. 30.01.1814), ucciso in Vaddi Muroni, sepolto a Trinità d’Agultu. Affiliato alla parte dei Vasa.

30 gennaio 1856: omicidio di Pietro Muntoni, ucciso in Lu Muddetu.

26 maggio 1856: Paci di Tempio...
Con questo atto fu sancita ufficialmente la fine delle inimicizie fra i Vasa e i Mamia.
Nei mesi successivi a tale cerimonia, la catena di delitti si allungò ulteriormente. Basti pensare che dal 26 maggio 1856 al 14 luglio 1860 furono commessi altri nove omicidi.

Tra i fatti di sangue successivi alle paci di Tempio i principali furono:
13 dicembre 1856: omicidio di Pietro Pirodda (n. 4.11.1835) di Antonio e di Maria Vittoria Pirodda, ucciso presso la Paduledda, sepolto a Trinità d’Agultu.

5 luglio 1857: omicidio di Anton Stefano Pes. Secondo il Costa fu ucciso dal Muto, poer vendicarsi del fatto che non gli avevano concesso la mano della giovane figlia Francesca.

??.??.1858 – Sebastiano Tanxu di Andrea e di Agostina “Razzu”, soprannominato “il Muto di Gallura”, sepolto in località ignota.

18 marzo 1859: muore Pietro Vasa, nel carcere di Tempio.
Con la sua fine, cala finalmente il sipario sulla inimicizia fra i Vasa e i Mamia, in quanto sono scomparsi tutti i principali attori. In realtà i fatti di sangue in Agultu continueranno ancora per molti anni perché nel frattempo si creeranno nuove inimicizie.

A questi nominativi si dovrebbero aggiungere anche quelli che, implicati nella faida e assicurati alla Giustizia, perirono nelle prigioni, dislocate anche fuori della Sardegna.
Fra di loro si ricordano:
- Martino Tirotto, anni 37, deceduto a Sassari nel 1862;
- Francesco Carbini Brandincu, di Nigolaeddu;
- Leonardo Tirotto, anni 44, deceduto a Genova nel 1859;
- Mattea Muretti, anni 40, deceduta a Sassari nel 1862;
- Giovanni Antonio Vasa, noto Baddarocculu, anni 36, deceduto nel carcere di Tempio Pausania nel 1863;
- Michele Suelzu Buleddu, anni 50, deceduto nel carcere di Tempio Pausania nel 1865;
- Martino Peru, anni 50, deceduto nel carcere di Tempio Pausania nel 1874;
- Andrea Addis Ugnutu, anni 30, di Migalazzu, coniugato con una Domenica Mamia, deceduto nel carcere di Tempio Pausania nel 1876;
- Giovanni Tuxoni, anni 62, deceduto nel 1880 a Pozzuoli, dove era condannato ai lavori forzati

Opere letterarie e canzoni ispirate alla faida

IL MUTO DI GALLURA di Enrico Costa, pubblicato nel 1884.
E’ ovviamente l’opera più conosciuta. Scritta un quarto di secolo dopo la conclusione della faida. Oltre i ricordi ancora freschi e le ferite ancora non completamente rimarginate, erano ancora in vita numerosi individui che l’avevano vissuta in prima persona come Michele Antonio Tanxu, fratello del Muto.
Il Costa si guardò bene da attingere informazioni da parte del clan dei Vasa; preferì cercarle ad Aggius, dove i ricordi erano più sbiaditi e dove, talvolta, i resoconti arrivavano alterati, rispetto agli episodi, realmente accaduti nelle lontane campagne. In ogni caso, essendo le tristi vicende concluse da poco, la gente ne parlava malvolentieri.
Il Costa non trovò allora di meglio che recarsi a Bortigiadas, da Giovanni Antonio Ciacciaredda e Francesca Pes, che non conoscevano, in maniera veramente diretta, le vicende della faida in ogni particolare. A questo punto lo scrittore sassarese riuscì però ad avere un quadro, seppur di parte, di tutto quanto era successo; però rimescolò le carte a suo piacimento al solo fine di raccontare una storia che potesse interessare i lettori. In primo luogo raddoppiò il numero di vittime della faida, portandolo a più di settanta, e poi cambiò i nomi dei suoi informatori: Giovanni Antonio diventò Giuseppe e Francesca diventò Gavina. Non ebbe bisogno di fare un grande sforzo di fantasia; gli bastò pensare alle due chiese campestri che, dall’alto delle loro colline, dominavano le campagne teatro degli avvenimenti: San Giuseppe di Cugurenza e San Gavino di Petra Maina.
Tutta questa serie di circostanze, causò localmente qualche malumore, soprattutto nel clan dei Vasa, i quali affermarono spesso che il Costa aveva presentato i fatti dal punto di vista dei Mamia. Il vecchio Pietro Oggiano, morto qualche anno fa, discendente, per parte materna, da un fratello di Pietro Vasa, sull’argomento diceva sempre che se, all’epoca della pubblicazione, fosse stato ancora vivente lo zio... al Costa sarebbe capitato qualche cosa di brutto...

IN GALLURA di Arturo Garzes (1856-1935).
Dramma teatrale in 2 atti pubblicato nel 1890; le vicende narrate, non riprendono quelle della faida, tuttavia gli ambienti, i personaggi, lo stesso luogo dove si svolge l’azione, L’Avru, sono ispirati al libro del Costa.

I VASA E I MAMIA, (di Rossella Conz, Pino Massara e Franco Migliacci) titolo di una canzone presentata al concorso “Un disco per l’estate 1967”, eseguita dai Los Marcellos Ferial, gruppo allora molto in voga.
La canzone ha qualcosa a che vedere con le vicende narrate nel Muto di Gallura. Vi si racconta infatti di una faida tra due famiglie (non è specificato se sono sarde) a causa di una capra dei Vasa, uccisa dai Mamia perché sorpresa a brucare l'erba sul loro territorio. Il fattaccio dà la stura ad una serie di sanguinose vendette che si concludono con l'annientamento totale delle due famiglie.
La canzone, qualche mese prima, fu presentata alle selezioni per il Festival di Sanremo 1967; gli organizzatori, per evitare polemiche, la fecero fuori, anche perché i discorsi sul banditismo sardo facevano parte dell’attualità quotidiana, grazie soprattutto alle gesta di Graziano Mesina e Miguel Atienza, che all’epoca riempivano le prime pagine dei giornali; non si voleva presentare una canzone, che fosse minimamente ricollegabile ai luoghi e ai soliti discorsi comuni relativi alla Sardegna.
La canzone fu poi presentata anche al Cantagiro che, all’epoca, veniva trasmesso in televisione. Per l’occasione, la canzone venne “purgata” in alcune parti del testo.
Per la cronaca il disco non ebbe un grandissimo successo di vendite, anche se veniva trasmesso regolarmente tutti i giorni dalle stazioni radio.

DUE DONNE AD AGGIUS, di Pietro Peru, aggese, pubblicato a Napoli nel 1982.
L’autore basandosi su resoconti della tradizione orale, riporta, in maniera romanzata, ma con una certa pretesa di verità storica, la vicenda della faida vista dalla parte di due donne: Mariangela Mamia, fidanzata di Pietro Vasa e Francesca Pes, la donna della quale si era invaghito il Muto.
Il libro riporta numerose inesattezze riguardo ai fatti e ai luoghi reali della vicenda.

IL MUTO DI GALLURA a fumetti, di Simone Sanna, pubblicato nel 2003.
La vicenda raccontata ha poco da vedere con l’opera del Costa e con la vera storia.
Simone Sanna, aggese, è autore anche di diverse altre opere, sempre a fumetti, ispirate alla storia e tradizioni locali. In particolare, recentemente, ha curato una riduzione a fumetti di Cenere di Grazia Deledda

IL MUTO DI GALLURA in versi di sestine, in gallurese di Bortigiadas, pubblicato nel 1948, da Paolo Dettori, noto Perredda, (1893-1969).
L’autore, era un contadino nativo dello stazzo di Limpas (Bortigiadas) e poi trasferitosi a Santa Maria Coghinas. Personaggio molto metodico e dal carattere docile. Combattente nella 1ª Guerra Mondiale, dove fu anche decorato.

LU CONTU DI LU MUTU DI GADDHURA in versi, 150 ottave in gallurese di Aggius, pubblicato nel 2004.
L’autore, Gianfranco Serra, noto imprenditore agrituristico, è nato ad Aggius nel 1957.
Nel volume vi è anche un’ampia appendice in prosa, opera di Franco Fresi, nella quale viene ricostruita la vicenda storica, legata alla figura di Bastiano Tanxu.