Storia dello Stazzo di "Lu Eldi"
Lo stazzo è ubicato ad una distanza di circa 2500 metri dal mare, ad
un'altitudine di 210 metri s.l.m. esattamente a qualche decina di metri
del bivio della strada provinciale Castelsardo - Santa Teresa e Trinità
- Bivio per L'Isola Rossa.
Il toponimo "Lu Eldi", significa "Il Verde", probabilmente perché in
quel sito alle prime piogge, si vedeva "Lu Limpiddu" cioè lo spuntare
dell'erba prima che in altri siti.
Il sito di "Lu Eldi" é caratterizzato dalla presenza di diverse case
rurali e la maggior parte di queste erano abitate fino a pochi anni fa.
La casa rurale esistente era ubicata in un terreno di proprietà, di
circa mq. 6.500. In passato nel terreno esisteva un impianto di vigna,
dal quale si produceva un ottimo Vermentino. Tra i filari sono stati
introdotti, circa 60 anni fa, dei piccoli "olivastri" che, innestati in
seguito con Olive "Bosane", costituiscono oggi un Uliveto in piena
produzione.
La casa, nel tempo, ha subito un forte degrado, comportando la
necessità della sua demolizione e ricostruzione per evitarne il
pericolo di crollo totale.
La sua ricostruzione, ha lasciato comunque inalterata la volumetria, le
sagome, le dimensioni, le tecniche costruttive ed i materiali
caratteristici.
Le sole modifiche apportate sono lievi varianti alla distribuzione
interna, anche ai fini di un adeguamento igienico-sanitario, ed al
disegno delle aperture.
Il fabbricato riproduce la tipologia costruttiva dell'antico stazzo
gallurese sia per la data di costruzione (é stato realizzato
presumibilmente negli ultimi anni dell'ottocento), sia per la tipologia
costruttiva "antica".
Dopo i lavori di recupero la casa è divenuta nuovamente abitabile come
lo è stata in passato. Si racconta che fu utilizzato come edificio
scolastico per gli stazzi delle borgate di La Paduledda, la Scalitta e
Cascabraga.
Oggi la vecchia abitazione dello Stazzo, svolge la funzione di casa
appoggio all' interno della proprietà, ed è vissuta ed animata per
tutto l'anno. L'uliveto è in piena efficienza, e produce un ottimo olio
dal delicato profumo di carciofo.
I luoghi del Muto di Gallura. A cura di Petru
Introduzione
IL MUTO DI GALLURA
Enrico
Costa (1841-1909) poliedrico uomo di cultura sassarese dell’Ottocento
(fu infatti giornalista, poeta e romanziere) è l’autore del romanzo
storico Il Muto di Gallura, pubblicato nel 1884, nel quale si narrano
le vicende relative alla faida fra le famiglie dei Mamia e dei Vasa,
avvenuta in Gallura, dal 1849 al 1856.
Sono passati
circa 120 anni dalla sua pubblicazione eppure il fascino di quest’opera
resiste ancora saldamente. Il volume viene ancora ristampato e,
soprattutto, venduto. Probabilmente il motivo del successo sta
nell’essenza stessa della figura emblematica di Bastiano Tanxu,
sordomuto dalla nascita, che da figura di secondo piano nell’ambito
della storia reale, grazie all’abile penna del Costa, diventa il
protagonista assoluto di tutta la vicenda.
Sull’argomento
narrato nel libro sono stati versati fiumi d’inchiostro, tuttavia
nessuno ha cercato di risalire alla realtà storica dei luoghi e delle
vicende che, in maniera romanzata, sono raccontate dal Costa. Tutti i
trattati sull’argomento sono pieni di enfasi, più o meno accettabili
dal punto di vista letterario, non lo sono dal punto della descrizione
della realtà degli avvenimenti di quel periodo, portando ad uno
stravolgimento dei fatti storici alterandoli in molti dei loro aspetti.
Partendo da
questo dato di fatto, è stato fatto uno studio degli avvenimenti,
descritti nel libro del Costa, per cercare di saperne di più dal punto
di vista della verità storica. La ricerca basata principalmente su
documenti d’archivio o tradizione orale del luogo dove si svolsero i
fatti, e in misura minore sulle pubblicazioni esistenti, ha portato a
una ricostruzione delle diverse vicende che, in taluni casi, è
risultata molto diversa da quella descritta dal Costa il quale, in
alcuni passaggi, rielaborò nomi, luoghi e fatti per esigenze
letterarie, o più prettamente commerciali.
Ne è venuto
fuori un quadro abbastanza concreto della situazione sociale ed
economica, e quindi degli avvenimenti, di quel triste periodo, anche se
qualche punto rimane ancora un po oscuro.
IL PERIODO STORICO
Sulle cause
della faida si sono scritte diverse versioni, però tutte poco aderenti
alla realtà; piuttosto che analizzare a fondo la situazione, partendo
dal momento storico si preferisce contornarla di un alone di mistero,
talvolta romantico, affermando che fu originata dal mancato rispetto di
una promessa di fidanzamento, oppure si propone di liquidare la
questione in maniera più semplicistica, come derivata da una lite
successiva ad uno sconfinamento di bestiame.
In realtà senza
la penna del Costa, che ricamando una storia a volte fantasiosa
incentrata sulla terribile, e allo stesso tempo pittoresca e patetica,
figura del sordomuto Bastiano Tanxu, sarebbe caduta nel dimenticatoio,
o malamente ricordata come una delle tante inimicizie sbocciate in
Sardegna nell’Ottocento.
In effetti le cause scatenanti sono molteplici e non si può risalire ad esse senza accennare alla situazione sociale del tempo.
Le radici della
faida vanno ricercate principalmente nella generale situazione di
dissidi e malumori, ai quali non è estraneo il famigerato Editto delle
Chiudende. Tale provvedimento è risaputo che causò una lunga serie di
soprusi, e quindi di conflitti, che, accumulandosi con il passare del
tempo, si estrinsecarono in una lunga serie di fatti di sangue, intorno
alla metà del secolo.
Tali
inimicizie, si sviluppavano principalmente nelle campagne e,
considerato che lo Stato era assolutamente assente per assicurare un
minimo di legalità e di giustizia, dovevano per forza di cose sfociare
immancabilmente nella vendetta personale.
Da molti anni
poi, una delle attività più remunerative era il traffico di
contrabbando con la vicina Corsica; per cui era abbastanza diffusa una
certa cultura dell’illegalità.
Il contrabbando
prosperava da sempre lungo il litorale, dove le numerose calette
costituivano sicuri, e soprattutto nascosti, punti di approdo per le
agili gondole di Bonifacio che trafficavano fra le due isole. Luoghi
come Tinnari, Littu di Zoccaru, Canneddi, Cala Falza, Li Scalitti, Cala
di L’Agnuli, La Gruzitta, Cala Sarraina e Lu Strintoni erano teatro
quasi quotidiano di approdo dei contrabbandieri, che talvolta venivano
sorpresi dalle imbarcazioni guardacoste della Regia Marina. Si ha
notizia di numerosi conflitti a fuoco tra miliziani e fuorilegge, sin
dal Settecento.
D’altra parte
il contrabbando era una delle poche risorse economiche che poteva
garantire la sopravvivenza e la possibilità di poter pagare tasse e
balzelli, che in quel periodo erano molto gravosi.
Una cosa, non
da poco, da ricordare è che i numerosi soprusi, subiti per circa
quattro secoli sotto Aragonesi prima e Spagnoli poi, non erano certo
diminuiti con l’avvento dei Savoia, anzi erano addirittura diventati
più onerosi, grazie alla poca cura, e alla incapacità congenita, dei
governanti piemontesi inviati in Sardegna.
A tutta questa
serie di cose si deve aggiungere l’indole dei pastori, che
soggiornavano nelle vaste, lande scarsamente popolate, poco incline a
sopportare il giogo dell’autorità, che per loro significava solamente
leva e tasse; tali imposizioni non furono, in pratica, mai accettate.
Solamente un
secolo prima, nel territorio teatro della faida, nella località di
Cuccaru, vi era stato il più grosso concentramento di fuorilegge della
storia di Sardegna; praticamente fu una aggregazione talmente copiosa
da costituire un vero e proprio villaggio, che accoglieva individui
viventi alla macchia, anche dall’Anglona e dalla Corsica. Per alcuni
anni, furono impiegati diversi reparti militari, che dopo una serie di
alterne vicende, talvolta vere e proprie battaglie campali, riuscirono
a bonificare il territorio. Tuttavia il Monte Cuccaru, continuò ad
offrire rifugio a latitanti isolati sino alla fine dell’Ottocento.
Nelle campagne
pertanto vi erano in circolazione diversi pericolosi individui che
facevano del delinquere la loro professione. Tra questi Giovanni
Demuro, noto Zirinnau, che era alla macchia in quanto ricercato per
l’omicidio del vignolese Salvatore Bianco, avvenuto il 30 dicembre
1841, nelle campagne di Vignola. In seguito, durante la vita alla
macchia, essendosi invaghito di una giovane pastorella vignolese,
provvederà a sbarazzarsi della propria moglie, Domenica Altana,
uccidendola personalmente il 28 ottobre 1856 in Montirussu (Aglientu),
con la collaborazione del suo degno compare, Leonardo Dalmassso noto
Garroni, contrabbandiere di origine corsa, ma ufficialmente residente a
Tempio. Entrambi furono poi catturati e processati, a Sassari nel 1862:
il Demuro fu condannato all’impiccagione e la sentenza fu eseguita a
Tempio; il Garroni invece se la cavò con una condanna ai lavori forzati
a vita.
Di uxoricidio,
era stato accusato un altro celebre latitante di quel periodo, Godiano
Serra “Cunconi”, delle campagne di La Balestra (Aggius). Assieme ad
altri suoi compari come Leonardo Tirotto di Cascabraga (Trinità
d’Agultu) e Leonardo Mamia di Nigolaeddu (Trinità d’Agultu) si era reso
artefice di una lunga serie di delitti fra i quali il più praticato era
il furto di bestiame. Pare che fosse dedito anche all’attività di
sicario. Alla fine di febbraio del 1841, nelle campagne di Vignola, in
località Lu Naragoni, tese un agguato al pastore Giovanni Pietro Addis
Melaju, che riuscì a scamparla. In quel periodo vi era una profonda
inimicizia proprio fra i Melaju e i Tirotto, parenti del Serra.
Oltre gli
esempi citati, vi è da dire che i latitanti, ricercati in massima parte
per reati contro il patrimonio, erano veramente molto numerosi. I
resoconti dei processi, celebrati in quegli anni in Corte d’Assise a
Sassari, sono pieni di nominativi di persone residenti nel territorio
di Agultu e Vignola. I reati più comuni erano l’omicidio, tentato o
consumato, il furto di bestiame, l’evasione fiscale, il contrabbando e
la resistenza a pubblico ufficiale, naturalmente armata, quando i
militari capitavano a tiro.
Questa era la
situazione precedente il fatidico anno 1850, indicato da sempre come
quello di inizio della faida. Non si può però fare a meno di elencare
una lunga sequela di fatti delittuosi che aveva insanguinato le
contrade già nel decennio precedente.
Il 18 giugno
1848, nell’abitato di Aggius, era stato ucciso il notaio tempiese
Bartolomeo Panu. Quindi in rapida sequenza erano stati trucidati:
Giovanni Antonio Doro Sbettigu di anni 20, ucciso in Monti Careddu il 3
ottobre 1848; nell’occasione fu ferito anche un occasionale compagno,
Giovanni Battista Spezigu che ebbe la sfortuna di trovarsi nei pressi;
Gavino Maddau di anni 30, ucciso il 4 marzo 1849, nei pressi della
chiesa campestre di San Pietro di Rudas; Giovanni Antonio Altana, anni
30, ucciso il 31 agosto 1849; Luciano Addis “Melaju”, anni 55, ucciso
il 29 ottobre 1849; Giovanni Pietro Tirotto, anni 40, ucciso il 28
febbraio 1850, poche settimane prima del ferimento di Pietro Vasa.
Da notare che
nella primavera del 1849, Pietro Vasa e Mariangela Mamia erano
felicemente fidanzati e si era ben lungi dall’immaginare quello che
stava per succedere.
Proprio nel
mese di maggio di quell’anno 1849, quando, secondo quanto riportato dal
Costa, si svolse la cerimonia dell’abbrazzu, a poca distanza dallo
stazzo abitato dal Vasa erano accaduti due orribili fatti di sangue: il
giorno 25, presso Lu Muddetu, era stato assassinato Francesco Aunitu
noto “Mussignori” di anni 40; il giorno successivo, 26 maggio fu la
volta di Sebastiano Pileri “Aminosu” di anni 39, trucidato in località
La Lamma, sotto gli occhi della figlia tredicenne. Di tale efferato
delitto furono imputati i fratelli Michele e Antonio Pileri, abitanti
nello stazzo di Lu Rotu, presso Trinità d’Agultu, e quindi dirimpettai
con i Vasa. Fra i testimoni accusatori vi erano i fratelli Matteo e
Antonio Vasa, zii paterni di Pietro, e la sorella di quest’ultimo,
Giovanna Angela, nonché Michele Tanxu, fratello del Muto.
Da tutto questo si intuisce il tipo di rapporto di “buon vicinato” che intercorreva tra i Vasa e i Pileri.
Se poi si
aggiungono i forti contrasti tra Pietro Vasa e Salvatore Pileri, si
capisce che, da quel momento, ogni pretesto sarebbe stato buono per
dare libero sfogo all’odio e alla rabbia fino a quel momento repressa.
I LUOGHI
In linea di
massima i principali avvenimenti si svolsero in quella fascia
subcostiera del Golfo dell’Asinara che partendo dalla foce del Coghinas
arriva sino al Rio di Vignola.
Ancora oggi è
una zona scarsamente popolata, nonostante il notevole sviluppo di
strutture abitative, destinate però ad uso turistico.
All’epoca dei
fatti relativi alla faida, esisteva una miriade di stazzi abitati,
sperduti nelle impervie e selvagge campagne. La zona viveva in quel
periodo il suo boom demografico, conseguenza diretta del fatto che
sempre più famiglie si stabilivano definitivamente in quelle contrade.
Per secoli
tutto il territorio era stata una distesa abbandonata dove regnava
l’incuria e la malaria. Da documenti dell’epoca medievale, si ha
notizia di diversi centri abitati esistenti nella regione durante le
prime fasi del periodo post Giudicale. Il documento più conosciuto è
l’Atto di Infeudazione concesso dal Re Alfonso V, il Magnanimo, a
Rambaldo di Corbaria nel 1421; in esso sono riportati i nomi di una
serie di villae facenti parte del vasto possedimento. Tra queste,
facevano sicuramente parte della zona in questione, se non altro per
l’assonanza con toponimi tuttora in uso: Agusthu, Monte Carello e
Vinyolas.
Nello stesso
documento si riporta che molti di questi villaggi erano ormai
disabitati da almeno cinquanta anni, a causa di continue pestilenze e
carestie; fra questi, anche quelli succitati.
In seguito
sempre per gli stessi motivi anche altri villaggi, in pratica tutta la
vasta regione, si spopolarono completamente. Conclusasi l’epoca
Giudicale, con l’avvento degli Aragonesi, la situazione non era
migliorata, in quanto nel frattempo le coste erano diventate insicure
per le continue incursioni di pirati barbareschi. Costoro sbarcavano
all’improvviso, nelle giornate di nebbia; protetti dalla foschia
arrivavano non visti in quei lidi, razziavano bestiame e altri prodotti
dell’agricoltura, soprattutto cereali, catturando, spesso, anche
qualche ignaro pastore solitario, che conducevano via come schiavo.
Ancora oggi sono ben vivi, nella tradizione orale, racconti e leggende
su questi tragici avvenimenti.
Tutto questo
portò allo spopolamento totale delle zone più vicine al mare. Fino alla
metà del Seicento, in tutta la Gallura gli unici villaggi esistenti
erano situati all’interno, addossati alle pendici del Limbara; solo
uno, Terranova Pausania (Olbia) era sulla costa.
A partire dalla
fine del XVII secolo, si assistette al progressivo ripopolamento del
territorio, ad opera di abitanti della vicina Corsica, trasferitisi in
Sardegna per diversi motivi, non tutti di tipo economico. In seguito,
essendo le coste diventate più sicure, per la minor pressione
esercitata dai pirati, anche a causa di una migliore organizzazione
difensiva, si ebbe un incremento di tale fenomeno di colonizzazione.
Nella regione
in questione il ripopolamento fu originato da pastori provenienti dai
paesi più vicini della Gallura interna come Aggius, Bortigiadas e
Tempio; in misura minore da altri centri galluresi e dell’Anglona.
Nelle prime
fasi del fenomeno si trattava di migrazioni temporanee di pastori che,
dai villaggi, nelle loro transumanze, si spingevano fino alle zone
disabitate, nel tardo autunno per poi rientrare al villaggio d’origine,
all’inizio dell’estate, quando era terminata l’annata agricola.
Durante questo
periodo, all’inizio, soggiornavano in strutture di fortuna utilizzando
come abitazione qualche nuraghe o, più spesso le spelonche scavate
nella roccia dagli agenti atmosferici. In seguito furono costruiti i
“cuponi”, capanne circolari di pietre a secco con il tetto ricoperto di
frascame, in pratica gli antenati della casa dello stazzo.
La prima fase
della colonizzazione, caratterizzata dalla presenza di insediamenti
temporanei, presentava quindi, in prevalenza, un’economia di tipo
pastorale allo stato brado. In seguito, con il formarsi dei primi
insediamenti fissi, si intrapresero anche attività agricole e di
allevamento più intensivo.
Da sempre, e
fino agli anni Quaranta del secolo scorso, una delle attività
predilette era il contrabbando con la vicina Corsica. Già dal
Settecento si praticava con estremo profitto: si esportavano derrate
alimentari, per la maggior parte di provenienza furtiva, e si vendevano
nei mercati di Bonifacio, Ajaccio, Sartena e Porto Vecchio. Si
importavano invece preferibilmente armi, polvere da sparo, tabacco che
venivano poi rivenduti nei mercati di Tempio e dintorni.
Un ulteriore
traffico era costituito dallo scambio reciproco di latitanti, ricercati
per vari motivi e che cambiando isola, avevano la certezza
dell’impunità, e soprattutto, nella nuova residenza, si industriavano
per trovare inedite forme di guadagno illecito.
Non di rado i
trafficanti ingaggiavano combattimenti con le navi regie, addette al
controllo delle Bocche. Il personale delle torri costiere di Isola
Rossa, Vignola e Longonsardo, che doveva vigilare per impedire il
trasbordo clandestino, spesso era in combutta con i contrabbandieri.
Questa era la
situazione delle regioni sub costiere nei primi anni del secolo XIX,
con un numero sempre più alto di colonizzatori che si riversavano, in
maniera stabile, nelle vaste lande abbandonate ed incolte.
Nel secondo
quarto dell’Ottocento si ha un consolidamento del fenomeno, anche come
conseguenza dell’Editto delle Chiudende, che però porterà, come si è
detto, ad una serie di conflitti, culminati nelle faide della seconda
metà del secolo. Da rilevare che nel periodo in questione si assistette
alla nascita di numerosi aggregati rurali di una certa rilevanza
demografica, che in molti casi andarono poi a costituire tutta una
serie di nuovi villaggi. Normalmente, da polo d’attrazione funzionarono
le chiese campestri che, da semplice centro d’aggregazione temporaneo,
nei giorni della festa del santo, con il tempo portarono alla
formazione di unità abitative fisse e di conseguenza alla formazione di
nuovi paesi.
Il fenomeno
raggiunge la sua massima espansione, negli anni a cavallo fra le due
guerre mondiali. Dopo il 1950, si assiste al fenomeno di migrazione
dalle campagne verso i nuovi centri abitati; il cosiddetto boom
economico e l’avvento del turismo, con l’affermarsi di nuovi sistemi
economici e nuovi modelli di vita, portano in pratica alla fine della
civiltà dello stazzo.
Negli anni
della faida il fenomeno migratorio era in una fase molto avanzata;
esistevano già tutta una serie di infrastrutture abitative, occupate
per tutto l’anno dai loro proprietari che, oltre l’allevamento,
praticavano anche la coltivazione dei terreni, da dove traevano il
necessario sostentamento per loro e per i propri congiunti, che
risiedevano con il capofamiglia, a differenza di quanto avveniva nel
resto della Sardegna.
Con la
trasformazione da pastori, quasi nomadi, ad agricoltori stanziali si
hanno i primi conflitti; d’altra parte il dualismo pastore-contadino in
Sardegna è stato sempre motivo di attrito che spesso andava a sfociare
nella vendetta personale.
Ed è in
quest’ambiente che si sviluppano i primi focolai di quello che
diventerà il “devorante incendio” che brucerà tutto senza risparmiare
nessuno, nemmeno donne e ragazzi adolescenti.
LE SINGOLE LOCALITÀ
Le principali località teatro degli avvenimenti di quegli anni, non tutte citate dal Costa:
La Gjunchizza (Trinità d’Agultu e Vignola – OT)
Nei pressi
della chiesa campestre di Santa Maria di Vignola. Nella vasta tenuta
della famiglia Mamia, vi era la casa dello stazzo dove avvenne la
cerimonia dell’abbrazzu, descritta dal Costa. Oggi la proprietà si
trova inglobata nella tenuta dell’azienda vinicola Monte Spada. La casa
dei Mamia è stata demolita alcuni anni fa.
Lu Naragheddu (Trinità d’Agultu e Vignola - OT)
Località
situata un paio di chilometri ad ovest dell’attuale abitato di Trinità
d’Agultu, in direzione Badesi. Era lo stazzo dove risiedevano i Vasa e
i Pileri. Attualmente, alcuni ruderi di edifici stanno a dimostrare
l’antica consistenza demografica del sito. Nel punto dove sorgeva la
casa di Pietro Vasa vi sono oggi alcuni alberi di mandorlo.
Li Colti (Trinità d’Agultu e Vignola – OT)
A breve
distanza dal’abitato di Trinità d’Agultu, in una vallata caratterizzata
dalla presenza della chiesa campestre di Sant’Antonio da Padova. Era la
residenza dei Mamia “Verri” e dei Tanxu.
L’Avru (Viddalba – SS)
A valle della
chiesa campestre di San Gavino di Petra Maina. Era la residenza della
famiglia Pes, parenti di Pietro Vasa che ospitarono sia lui che il
cugino Sebastiano Tanxu, durante la loro vita alla macchia successiva
all’uccisione di Michele Mamia.
Trinità d’Agultu (Trinità d’Agultu e Vignola – OT)
Attualmente vi
risiedono stabilmente circa 1500 abitanti; all’epoca dei fatti vi
avevano domicilio solo il prete e la famiglia di un artigiano che
svolgeva anche le funzioni di “eremittanu”.
Secondo taluni
storici, il paese sorgerebbe nel luogo dove nel Medio Evo vi era un
villaggio chiamato Aghustu (o Laghustu, secondo altre fonti). A parte
l’assonanza del nome medievale con quello odierno, tale ipotesi non è
stata però suffragata dal rinvenimento di reperti attestanti
l’esistenza di un villaggio, anche se nei dintorni dell’attuale centro
abitato c’è qualche affioramento, però difficilmente databile, in
quanto non è stato oggetto di studio accurato. Oltretutto vi sono anche
i ruderi di due chiesette, dal culto tipicamente bizantino, Santa
Barbara e Sant’Orsola, alla periferia del paese, non distanti fra di
loro, che farebbero pensare all’esistenza di un centro abitato.
La chiesa della
SS. Trinità, che dà il nome al paese, secondo la tradizione orale,
invece risalirebbe al Settecento, quando un fuorilegge che
contrabbandava con la Corsica, prelevò una statua della Trinità, da una
chiesa fatiscente, nel sud della Corsica, per trasportarla in Gallura e
edificare un santuario nella sua proprietà. La sua costruzione
risalirebbe al 1730 circa; nella seconda metà del secolo si richiese
più volte, alle competenti autorità, l’istituzione di una parrocchia,
per l’assistenza spirituale ai numerosi pastori, dimoranti nella zona.
Dopo un
ampliamento e restauro, avvenuto ai primi dell’Ottocento, finalmente,
nel 1813, fu istituita la parrocchia, alla cui custodia si alternavano
diversi sacerdoti nominati dal rettore di Aggius dal quale dipendevano.
Costoro soggiornavano, in una casupola adiacente la chiesa, solo nel
periodo da novembre a giugno, quando più massiccia era la presenza di
pastori nelle zone limitrofe. Dalla seconda metà del secolo, quando già
la faida tra Vasa e Mamia era nella fase conclusiva, il sacerdote di
turno fu obbligato a risiedere tutto l’anno nella parrocchia campestre.
La chiesa, con
il passare degli anni, diventò il punto di riferimento per tutti i
pastori degli stazzi esistenti nella zona che comprendeva tutta la
regione di Badesi, incluse le frazioni di Lu Muntiggjoni, La Tozza e
L’Azzagulta, praticamente fino al fiume Coghinas, oltre a quelle di La
Paduledda, Cascabraga, Li Colti, Li Lizzi Longhi, Lu Rotu, Lu
Capruleddu, Nigolaeddu e Tarra Padedda. La sua centralità religiosa è
dimostrata anche dal fatto, che ancora sino a pochi anni fa, il paese,
localmente, era chiamato “La ‘Jesgia”.
La Paduledda
(Trinità d’Agultu e Vignola – OT) Attualmente è una tranquilla borgata
in forte espansione urbanistica, data la sua vicinanza con la costa.
Pur non essendo praticamente menzionata dal Costa, la località è da
considerare il vero epicentro delle inimicizie. Nei suoi dintorni, fino
a qualche anno fa, era facile rintracciare, scolpite nella viva roccia,
le numerose croci attestanti i luoghi dove furono assassinati molti
individui delle due fazioni.
Aggius (Aggius – OT).
All’epoca dei
fatti, tutti i territori succitati ricadevano sotto la giurisdizione
amministrativa del Comune di Aggius. Il paese ne fu toccato solo
marginalmente, in quanto le vicende narrate nel libro si svolsero
nell’ambito del suo vasto territorio. Da un rapido esame sui luoghi di
residenza, degli uccisi in quegli anni, si scopre che solo due
abitavano ad Aggius: Antonio Mamia e il figlio Michele, che peraltro
erano originari di Vignola. Eppure il paese era stato classificato come
“il più feroce tra i villaggi sardi”.
Tra le altre vittime, un paio erano residenti nelle campagne di Viddalba, uno a Vignola e tutti gli altri nella zona di Agultu.
Biografie dei principali protagonisti
ANTONIO MAMIA
Antonio Addis
Mamia, era nato nel 1795, in La Gjunchizza, nelle campagne di Vignola;
figlio primogenito di Pietro Mamia e di Maria Maddalena Satta.
Il padre Pietro
Mamia, soprannominato “Uccitta”, era un celebre bandito. Alcune sue
imprese sono ricordate dall’Angius, in Casalis, che le racconta così:
“Fu assediato un giorno nel suo ovile da circa 60 uomini delle parti
nemiche, e da una compagnia di soldati venuti improvvisamente dalla
parte di mare: tuttavia egli uscì fra loro, e senza essere offeso da
alcuno de’ cento colpi che si fecero contro lui, nè patì altro danno
che la perdita del bestiame sopra il quale si sfogò tutta la vendetta.
Spedissi nuovamente contro lui una banda di soldati sotto gli ordini
d’un animoso capitano, il quale quando vide scemare giornalmente in
Vignola il numero de’ suoi soldati, andò a porsi in Agultu, luogo
frequentato dallo stesso Mamia e abitato da’ suoi parenti. Quivi
quattordici di lui cugini governati dal loro zio Andrea Tanxu, uomo
ottuagenario e non pertanto così robusto e coraggioso come un uomo di
35 anni, poterono in tre diversi assalti uccidere non pochi soldati, e
obbligare i superstiti a ritirarsi".
Grande
razziatore di bestiame, Pietro Mamia, assieme ai fratelli Giacomo e
Michele e alcuni componenti della famiglia Pileri, ai primi dell’800,
fu protagonista di una sanguinosa inimicizia, prima contro i Malu Tortu
e Bianco Lepori e, in seguito, contro gli Addis Mattola.
Assieme alle
famiglie alleate dei Carbini Brandincu di Nigolaeddu, i Tirotto Mamia
di Cascabraga e i Pirodda di La Paduledda aveva spadroneggiato, in
mezza Gallura e Anglona, compiendo una quantità impressionante di
azioni delittuose. Tra le altre “nobili professioni”, esercitava
l’attività di contrabbandiere con la vicina Corsica, dove si recava
spesso per vendere il bestiame e altre derrate, acquisite
fraudolentemente. Ad Ajaccio ebbe modo di incontrare alcuni patrioti
sardi, seguaci di Giovanni Maria Angioy, rifugiatisi in Corsica dopo il
fallimento dei moti rivoluzionari di fine secolo XVIII. In particolare
incontrò il notaio cagliaritano Francesco Cilocco e il sacerdote di
Torralba Francesco Sanna Corda che progettavano di invadere la
Sardegna, cacciare i Savoia e costituire un libero stato repubblicano,
ispirato agli ideali della Rivoluzione Francese: “libertè, egalitè e
fraternitè.
Il Mamia non
solo aderì al loro progetto, ma promise un cospicuo numero di persone
armate, che avrebbero dato man forte nel momento in cui fosse
cominciata la rivoluzione. In realtà, sin dai primi approcci,
progettava il più infame tradimento. Infatti, segretamente, prese
accordi con il giudice Lomellini, comandante della piazza di Tempio,
promettendo loro le teste dei congiurati, in cambio dell’impunità per
lui e altri quattordici suoi parenti, ricercati vivi o morti per i più
feroci reati contro il patrimonio e contro le persone.
Contemporaneamente continuò a frequentare gli angioiani, allo scopo di seguirne le azioni e informare il Lomellini.
I rivoluzionari
sbarcarono nella piccola cala vignolese di La Gruzitta (Trinità
d’Agultu e Vignola) il 13 giugno 1802; al posto dei duecento uomini
armati fino ai denti, promessi dal Mamia, trovarono solo quest’ultimo
che si giustificò con banali scuse; nonostante questo imprevisto, con
un’abile azione in contemporanea, riuscirono a conquistare le tre torri
costiere della Gallura: Isola Rossa, Vignola e Longonsardo (attuale
Santa Teresa Gallura).
Dopo pochi
giorni però il Governo Sabaudo passato alla controffensiva, anche
grazie all’aiuto determinante del Mamia, riuscì a venire a capo della
situazione: il Sanna Corda fu ucciso in combattimento presso la torre
di Longonsardo, il Cilocco, abbandonato e tradito, fu catturato nei
pressi di uno stazzo nelle campagne di Aglientu, portato a Sassari, fu
torturato e in seguito impiccato.
Uguale sorte
seguirono i suoi compagni d’avventura e due pastori vignolesi, Giovanni
Battino e Francesco Frau, catturati nei pressi della torre di Santa
Teresa. Pietro Mamia, assieme ai suoi scellerati compagni, per i
servizi resi al Regno di Savoia, ritornò ad essere un uomo libero,
senza più alcun conto da regolare con la giustizia.
Antonio Mamia
non seguì le orme paterne; si racconta fosse un uomo savio e
tranquillo. Sposò una sua parente che aveva lo stesso nome della madre:
Maddalena Pes Satta. Dal loro matrimonio, all’epoca dell’inizio della
faida, erano già nati sei figli: Giacomo (1831), il maggiore che, sin
dai primi attriti con i Vasa si diede alla latitanza; Mariangela
(1833), che dopo la rottura con Pietro Vasa sposò Giovanni Battista
Spezzigu “Coxiganu”; Michele (1835), Anton Pietro (1838) deceduto per
cause naturali all’età di vent’anni nel 1858, Leonardo (1841) e Pasqua
(1847) che, a quattordici anni, nel 1861, sposò un non meglio
identificato Pasquale Paggiolu.
Come si è già
detto, Antonio Mamia era una persona savia e giudiziosa, spesso
convocato come rasgiunanti nelle controversie fra pastori; buon
amministratore delle sue proprietà di Vignola, in età matura fu anche
consigliere comunale ad Aggius, e per un ridottissimo lasso di tempo fu
anche vicesindaco.
Oltre allo
stazzo natio di La Gjunchizza, che fu venduto subito dopo lo scoppio
della faida, era proprietario di altri terreni confinanti: Li Pentimi,
Pulchili e Larinzeddu; possedeva anche una casa in Aggius, avuta per
eredità paterna, e dove risiedeva quasi stabilmente a partire dal 1840.
Essendo di
indole naturalmente pacifica, la sua aspirazione era quella di
trascorrere una vita serena e tranquilla, memore dei disagi avvenuti in
famiglia grazie alle gesta di suo padre.
Tuttavia le sue
aspirazioni si dovettero scontrare con la situazione del tempo. In
gioventù si ritrovò nel bel mezzo di una faida tra la sua famiglia e
quelle dei Carta e Muntoni. Dopo circa quattro anni di lotta, nel 1837,
furono celebrate ufficialmente le paci; nonostante questo l’inimicizia
e gli attentati proseguirono per diverso tempo.
Infatti, il 7
maggio 1838, un anno dopo le cosiddette paci, Antonio Mamia fu fatto
oggetto di un agguato armato, dalla quale riuscì a scamparla. Mentre di
primo mattino, in compagnia del padre Pietro, si recava da Aggius al
suo stazzo di Vignola, furono fatti oggetto di alcune fucilate che non
procurarono loro grandi danni.
Il fatto
eccezionale, almeno per l'epoca fu però il seguito della vicenda: i
Mamia invece di farsi giustizia da soli, denunciarono il fatto
all’autorità competente, indicando come possibili autori dell’attentato
elementi della famiglia rivale. I tempi erano cambiati anche per loro.
Questo fatto però può servire a dare una misura della personalità del
Mamia. Ovviamente in questo modo di comportarsi non poteva essere
estranea l’esperienza del famoso genitore. Pietro Mamia, dopo la
conclusione della vicenda del Cilocco e Sanna Corda, e sua conseguente
riabilitazione, aveva abbandonato definitivamente la carriera di
fuorilegge, e viveva in maniera totalmente retta, nel timore di
precipitare nuovamente nel baratro delinquenziale dal quale era
faticosamente uscito.
Tale modo di
essere non poteva non influenzare il comportamento di Antonio Mamia
che, in effetti, nella vicenda con i Vasa, cercò sempre di sistemare le
questioni in maniera pacifica; solo la morte del figlio quindicenne lo
convinse a rompere gli indugi e ad imboccare la strada della vendetta
armata. Da rilevare che, quando fu ucciso il giovane Michele, la moglie
di Antonio Mamia, Maddalena Satta, era in attesa di un bambino, che
nacque qualche mese dopo, alla fine del 1850, e gli fu imposto, come da
consuetudine, il nome dell’appena defunto Michele.
Cinque giorni
dopo l’assassino del figlio Michele, il 20 agosto 1850, Antonio Mamia
si recò a Li Colti, per chiamare a raccolta i suoi parenti, ivi
residenti: i Mamia Malu, soprannominati Verri, i Fois “Taldìu”, i Peru
“Cujareddu” e naturalmente i Pileri. Dopo i soliti convenevoli di
comune accordo fu individuato il bersaglio da colpire: Caterina Bianco
Razzu, madre di Pietro Vasa. Fu incaricato dell’esecuzione Salvatore
Pileri, genero della vittima.
Era la fine
della vita tranquilla da sempe desiderata. Da allora con l’inizio della
mattanza, ad ogni avvenimento delittuoso a carico dei Vasa, era sempre
ricercato dalla Giustizia, in quanto sospettato di esservi implicato,
come esecutore o mandante, o come “persona informata sui fatti”.
Non bastasse
quello, viveva sempre nel timore di qualche agguato, in quanto sapeva
benissimo di essere considerato come il bersaglio più importante, dalla
fazione avversa. In mezzo a tanto odio, riuscì però a salvaguardarsi
alacremente, fino a quel tragico mattino del 24 giugno, festa di San
Giovanni Battista, quando giunse anche per lui il tragico epilogo della
sua vita terrena.
Il Mamia fu
ucciso, in un viottolo adiacente lo stazzo Nigola Spano, tra Aggius e
Tempio. All’agguato pare avesse partecipato un nutrito numero di
elementi del clan avverso, fra i quali lo stesso Pietro Vasa, che
riteneva di vitale importanza eliminare il mancato suocero, in quanto
senza la sua autorità di capo riconosciuto della fazione dei Mamia, i
suoi componenti senza più una guida avrebbero abbandonato i propositi
bellicosi.
Si racconta che
la sera stessa del suo omicidio, ci fu una grande festa, nello stazzo
dei Vasa, nel cui piazzale si contarono almeno ottanta cavalli.
Dopo l’uccisione del Mamia, la moglie Maddalena Satta, si risposò con un suo cugino, Bartolomeo Pes.
Il posto del
Mamia, come capo fazione, venne preso dal cugino Giovanni Michele
Pileri, di Trinità d’Agultu che ritornò nel suo luogo natìo, dopo
alcuni anni di latitanza, nella zona di Monti di Mola (Arzachena), in
seguito alla chiamata da parte dell’Intendente Generale Raimondo Orrù,
per dirimere la controversia, ed arrivare finalmente alle paci,
celebrate a Tempio nel 1856.
PIETRO VASA
Era nato in Lu Naragheddu il 23 gennaio 1816, da Francesco Vasa e Caterina Bianco “Razzu”.
Viene descritto
dal Costa come persona arrogante e permalosa. La tradizione orale parla
di lui come di una persona irriducibile e caparbia, fino
all’inverosimile; tale comportamento lo condurrà fino
all’autolesionismo, facendo sprofondare lui e la sua famiglia, in un
baratro senza fine. In genere è ritenuto il principale responsabile
dell’origine della faida. Difficile pensare a Pietro Vasa come una
vittima delle circostanze avverse, però probabilmente non furono tutte
sue le colpe. Era semplicemente un personaggio, inserito nella società
di quel periodo, perfettamente in linea con le consuetudini e le
tradizioni tipiche del mondo agropastorale della Gallura, che in fondo
imponevano un certo tipo di comportamento, legato a vecchi codici non
scritti, ma da sempre conosciuti e rispettati da tutti.
Al riguardo vi
è da ricordare che, secondo le consuetudini del tempo, dopo lo scampato
pericolo susseguente all’attentato del 19 marzo, per la grazia
ricevuta, elargì la somma di circa 48 scudi da destinare alla
celebrazione annuale di una Messa di ringraziamento a San Giuseppe.
Fisicamente era
di statura non eccelsa, di carattere facilmente irritabile, ma talvolta
incline all’umorismo, che lo portava ad essere anche simpatico, nei
rapporti con l’altro sesso.
Incominciò a
frequentare la casa dei Mamia intorno al 1846, quando accompagnò un suo
carissimo amico, tale Martino Muzzigoni “Salitu”, di Badesi, che doveva
acquistare (come poi fece) un appezzamento di terreno di Antonio Mamia,
nella zona di Li Colti.
Con la
fidanzata, Mariangela Mamia, aveva in comune poche cose a cominciare
dall’età: ben diciasette anni di differenza, forse un po troppi.
Sicuramente al Vasa non interessavano più di tanto, sia la fidanzata,
sia i rapporti col suocero Antonio Mamia, visto che nonostante il
parere anche del tribunale dei “rasgiunanti”, non esitò a mandare
all’aria il fidanzamento e tutto quello che vi era collegato.
Accade infatti,
dopo che per ben due volte il consiglio dei rasgiunanti, gli diede
torto, che acconsentì, nonostante tutto, a sposare Mariangela, nella
chiesa campestre di San Pietro di Rudas, a metà strada tra Trinità
d’Agultu ed Aggius. Ma il giorno fissato per la cerimonia si rese
irreperibile.
Tuttavia il suo
problema più grosso non erano i rapporti con i Mamia, ma quelli con il
cognato Salvatore Pileri, che aveva sposato la sorella Giovanna Angela,
“presa a fuggjitura”, e con il quale doveva convivere e, soprattutto,
dividere i suoi possedimenti.
Il Pileri era
una vera e propria spina nel fianco per il Vasa; nonostante avesse
sposato la sorella di Pietro, non fu mai accettato in famiglia. Alla
richiesta del Mamia di fare la pace con i Pileri prima del matrimonio
con Mariangiola, il Vasa oppose un netto rifiuto; secondo il suo modo
di vedere le cose, non poteva cacciare il Pileri dalla finestra di casa
sua, per poi farlo rientrare dalla porta principale, solo perchè era
parente della sua promessa sposa. Per cui vennero a scontrarsi
l’orgoglio e la testardaggine del Vasa con l’orgoglio e la voglia di
vivere in pace del Mamia, sentimenti in quest’ultimo amplificati dal
fatto che, secondo la tradizione del tempo, era convinto di avere
ragione, in quanto fra i due era il più anziano.
Il Vasa, dopo
le paci di Tempio, che decretarono la fine delle ostilità fra le due
famiglie, si sposò, a Trinità d’Agultu il 26 aprile 1857, con Maria
Pes, sua lontana parente, abitante nello stazzo di Li Cuzi (Viddalba).
In casa dei genitori di costei (Paolo Pes e Maria Vittoria Peru) aveva
trovato amicizia e protezione, durante la latitanza alla quale si era
dato, subito dopo i primi fatti di sangue. Trovò anche l’amore,
nonostante la differenza d’età fra i due: diciannove anni separavano
infatti Pietro da sua moglie Maria. Dopo il matrimonio, i due novelli
sposi vissero insieme per quasi due anni, alternando la residenza tra
lo stazzo di Li Cuzi e quello del Vasa in Lu Naragheddu.
Ormai in pace
con i Mamia, era però braccato dai carabinieri, per le storie del
passato e soprattutto perché istigati da Giovanni Antonio Ciacciaredda,
il quale aveva capito che, per la sua futura tranquillità era
necessario eliminare i due principali ostacoli: Pietro Vasa e suo
cugino Sebastiano Tanxu, il Muto.
Dal suo
matrimonio, il Vasa non lasciò discendenti: un figlio maschio,
Francesco, morì all’età di due anni, mentre una femmina, nata dopo la
sua morte, e alla quale era stato posto il nome di Pietrina, in memoria
del padre, morì anch’essa in tenera età.
Maria Pes, dopo
qualche anno, nel 1865, si risposò con Pancrazio Lepori di Codarruina.
Rimasta ancora vedova contrasse un altro matrimonio con Giuseppe Andrea
Stangoni, di Badesi. Morì, nello stazzo di Gjuncana (Viddalba) presso
alcuni parenti, nel mese di luglio 1891.
Nel libro del
Costa si accenna alla cattura del Vasa, avvenuta in circostanze
piuttosto strane. La realtà fu che Giovanni Antonio Spano Ciacciaredda,
dopo l’uccisione del Muto, per completare l’opera, come detto poc’anzi,
doveva far fuori anche il Vasa. Presi accordi con i Reali Carabinieri
in una fredda mattina di febbraio, organizzò un agguato, circondando la
casa dove abitava il Vasa. Pietro riuscì a rompere l’accerchiamento e
si diresse verso gli stazzi di La Paduledda, dove risiedevano alcuni
suoi amici e parenti. Il Ciacciaredda, che conosceva bene le abitudini
del Vasa, si appostò lungo la pista che conduceva a La Paduledda e
riuscì a ferirlo, facendolo diventare facile preda per i carabinieri.
Pietro Vasa
morì, il 18 marzo 1859 nel carcere di Tempio, come descritto nel libro.
I suoi parenti affermano, tuttora, che il Vasa fu avvelenato in
carcere. D’altra parte la sua ferita non dovrebbe essere stata così
grave se riuscì ad arrivare a piedi sino a Tempio dal luogo dove fu
catturato, distante circa 30 km.
SALVATORE PILERI
Soprannominato
“Catteddu”, nel romanzo del Costa ha un ruolo da comprimario, quasi
inesistente; in realtà all’interno della faida ebbe un ruolo da
protagonista assoluto.
Era nato
intorno al 1825, nello stazzo di Lu Rotu, presso Trinità d’Agultu, da
Giovanni Tommaso Pileri e Filippa Casu. Si sa che era di corporatura
imponente e forte e che, giovanissimo, si sposò con tale Vittoria
Stangoni di Badesi, che morì subito dopo, nel 1847, probabilmente
durante un parto, lasciandolo vedovo e con una bambina piccolissima.
Di carattere
orgoglioso, allegro e giocondo fino a quel momento, il Pileri cambiò
improvvisamente modo di essere, diventando una vera spina nel fianco
per tutti coloro che avevano a che fare con lui. Un giorno ebbe a
scontrarsi con il suo confinante Pietro Vasa, anche egli di carattere
poco malleabile, ma la cosa si limitò solo alle parole, senza passare a
vie di fatto.
Tuttavia da
quel momento il Pileri non perdeva occasione per creare problemi al suo
poco mansueto vicino: cercava in tutti i modi lo scontro; per esempio,
di notte apriva varchi nelle siepi che recintavano i terreni del Vasa e
vi introduceva le sue greggi a pascolare. Il Vasa lo minacciò più
volte, ma il Pileri rispondeva con un sogghigno per dimostrare di non
aver paura.
Il Vasa,
constatata la pericolosità e l’arroganza del Pileri, passò allora a vie
di fatto e i due vennero alle mani. Dopo questo fatto però ci fu un
periodo di tregua, in quanto il Pileri, rimasto vedovo, era
intenzionato a sposare Giovanna Angela Vasa, sorella di Pietro, e
pertanto ci teneva a non urtare la suscettibilità del futuro cognato.
Giovanna Angela
Vasa, proprio da Salvatore Pileri, era stata sottratta alle bramosie
erotiche di un frate questuante di passaggio nello stazzo di Lu
Naragheddu. A tale proposito si racconta che il Pileri inseguì poi il
frate, che si era dato alla fuga; dopo averlo raggiunto lo uccise con
le sue mani strangolandolo, per poi buttarlo nel torrente dal dirupo di
Pinna. Dopo questo avvenimento Giovanna Angela si innamorò perdutamente
di quell’uomo, che aveva salvato il suo onore dalle grinfie del focoso
girovago. La cosa mandò in bestia il Vasa e la povera ragazza fu
invitata a lasciare la casa paterna; tutti i parenti le tolsero il
saluto, come era consuetudine.
Si sposarono
alla fine del 1848 e l’anno successivo nacque il loro primo figlio. Il
Pileri allora mandò a dire al cognato che reclamava anche tutti i suoi
diritti sulla vasta proprietà dei Vasa, e che, con le buone o con le
cattive, sarebbe riuscito a farli valere. Il tutto accompagnato dai
soliti apprezzamenti e benedizioni nei confronti della suocera,
Caterina Bianco “Razzu”, che si era sempre rifiutata di riconoscerlo
come genero, anzi gli aveva fatto assoluto divieto di presentarsi
davanti all’uscio della sua casa.
Nella primavera
del 1849, il Pileri, approfittando della momentanea assenza del Vasa,
in un terreno recintato di Lu Naragheddu, adibito alla semina, dopo
aver aperto un passaggio ci introdusse sette capre a pascolare. Il
Vasa, appena ritornato, le uccise tutte a fucilate e le collocò come
chiudenda nel varco aperto dal Pileri.
Il Pileri
tuttavia non si rassegnò facilmente e, tramite il tradizionale
tribunale dei “rasgiunanti”, e anche minacciando denunce, riuscì a
farsi risarcire dal Vasa, per una cifra di molto superiore per il danno
subito.
Quando poi
Pietro Vasa chiese in sposa Mariangela Mamia, Salvatore Pileri e il
fratello Giovanni tentarono in tutti i modi di ostacolare il progetto.
Addirittura, si dice, avessero fracassato il tetto della casa di
Antonio Mamia, ad Aggius, per addossare la colpa del misfatto al futuro
genero.
Durante la
riunione avvenuta nello stazzo di Li Colti, il 20 agosto 1850, nei
giorni immediatamente seguenti l’uccisione del giovanissimo Michele
Mamia, pare sia stato proprio il Pileri a suggerire il nome della
suocera, come vittima predestinata, incaricandosi al contempo in prima
persona dell’esecuzione del progetto, con sommo piacere.
Dopo il
delitto, la moglie Giovanna Angela, lo difese strenuamente, ma i Vasa
lo denunciarono come esecutore materiale dell’omicidio della suocera.
Le forze dell’ordine andarono a prelevarlo nella sua abitazione di Lu
Rotu; in un primo momento riuscì a sgattaiolare, e a rifugiarsi in
direzione della Serra di San Giuseppe, dove però si era appostato un
altro drappello di cavalleggeri di Sardegna e fu catturato nei pressi
dello stazzo di Li Lizzi Longhi. Condannato all’ergastolo, scontò
diciotto anni di carcere, per poi ritornare in libertà. La lunga
carcerazione non aveva intaccato la sua vena burlesca anche se,
fondamentalmente, in lui prevalevano gli aspetti più spigolosi del suo
carattere. Si racconta che un giorno, a chi gli chiedeva come fosse
possibile vivere, per così tanti anni, rinchiuso tra quattro mura, e
mantenere allo stesso tempo il suo carattere immutato, pare abbia
risposto che in prigione, in fondo, non era così male e poi, nel suo
caso, diciotto anni non erano poi molti, in pratica gli avevano dato un
anno per ogni uomo che aveva ucciso...
MARIANGELA MAMIA
Figlia secondogenita di Antonio Mamia e di Minnena Satta, era nata a Vignola nel 1833.
Era sicuramente
una donna dotata di grandi virtù morali se riuscì a sopportare
degnamente tutti i lutti familiari causati dalla inimicizia con i Vasa.
Enrico Costa,
che la conobbe ormai cinquantenne, ne esaltò anche la bellezza
giovanile. Da lei apprese molti particolari della tragica vicenda,
avvenuta una ventina d’anni prima.
Mariangela
Mamia, dopo le paci di Tempio che, suggellarono la fine della faida,
l’11 settembre di quello stesso anno 1856, si sposò con Giovanni
Battista Spezzigu Coxiganu di Li Reni (Viddalba) ma residente ad
Aggius. Ebbe la sventura di veder morire, in tenera età, i primi due
figli avuti dal suo matrimonio: Martino (1863) e Anton Pietro (1864).
Il terzo figlio, sempre di nome Anton Pietro, nato nel 1866, fu una
persona molto conosciuta ed apprezzata in Gallura. Fu consigliere
comunale dal 1897 e sindaco di Aggius dal 1899 al 1911. Era ancora in
carica quando finì tragicamente i suoi giorni, ucciso da un sicario il
9 luglio 1911, nei pressi del paese di Aggius. Tale efferato delitto
non causò tuttavia una nuova faida. Sulle sue cause furono fatte
diverse ipotesi; qualcuno pensò ai vecchi rancori con i Vasa, mai
pienamente assopiti; altri lo collegarono all’omicidio del professor
Pier Felice Stangoni avvenuto presso Codarruina, il giorno di
ferragosto del 1904. Si fece addirittura il nome di un famoso sicario
di Rudalza (Olbia), tale Barore Nannia, che era stato visto in paese in
quei giorni. Le indagini avviate dopo l’omicidio non giunsero ad alcuna
conclusione; non si scoprì mai nè il mandante nè l’esecutore.
Mariangela
Mamia, ormai avvilita e stanca per le tante vicissitudini della sua
vita morì nella sua casa di Aggius, sedici mesi dopo la dipartita
dell’unico figlio, il 18 novembre 1912.
MICHELE TANXU
Di Andrea Tanxu
(1776-1841) e di Agostina Bianco Razzu (1793-1842), pertanto cugino di
Pietro Vasa da parte di madre. Fratello del Muto, era nato in Li Colti
nel 1820.
La famiglia dei
Tanxu era abbastanza agiata. Andrea Tanxu aveva infatti casa e vigna
nel paese di Aggius. Secondo la tradizione tipica dei pastori, però vi
dimorava raramente, ad eccezione del mese di settembre quando rientrava
ad Aggius per la vendemmia e per la festa del Rosario.
Normalmente la
famiglia risiedeva nel loro stazzo di Bainzeddu, nella regione di Li
Colti, non lontano dalla chiesa campestre di Sant’Antonio.
Vi è da
rilevare il fatto che i Tanxu e i Mamia erano apparentati tra di loro e
che vivevano da sempre in territori confinanti in amicizia e
fratellanza. Ora, sapendo che i Tanxu erano parenti anche del Vasa,
viene logico pensare che avrebbero potuto svolgere un ruolo di
mediatori ed evitare così tanti lutti.
Tutto questo
però solo sulla carta; nella realtà qualche tempo prima dell’inizio
della faida, era successo che proprio Michele Tanxu, fratello del Muto,
rimasto vedovo della prima moglie, si era risposato con una cugina di
Pietro Vasa, trasferendo la sua residenza allo stazzo di Lu Naragheddu,
vicino al cugino e rinsaldando ancora di più il loro vincolo di
parentela. Questo fu probabilmente il motivo che lo spinse a prendere
le difese del Vasa, quantunque fosse anche parente con i Mamia.
Uomo tosto e
vigoroso, e dal temperamento energico, Michele Tanxu, dopo la morte del
padre Andrea, aveva preso in mano le redini della famiglia, curandone
in maniera egregia gli interessi economici, e prendendosi cura del
fratello minore sordomuto. In quegli anni viveva in Li Colti, nello
stazzo di Lu Caldu ‘rreu, assieme alla prima moglie, Isabella Addis,
dalla quale aveva avuto due figlie: Maria Rosa e Agostina.
Era lui che si
occupava di tutto quello che riguardava gli interessi familiari; dalle
faccende ordinarie, come la cura della terra e del bestiame, a quelle
straordinarie come quando, nel 1839, si presentò in Tribunale, a
Tempio, per sollecitare la scarcerazione su cauzione del suocero
Salvatore Antonio Addis Scriccia, arrestato con l’accusa di tentato
omicidio, nei confronti dei fratelli Addis Melaju di Pitrischeddu
(Aggius).
Nel bel mezzo
di questa vita serena e idilliaca, nel 1847, gli venne però a mancare
la moglie. Rispettò il tradizionale periodo di lutto di due anni e poi
si risposò con una di Lu Naragheddu, Gavina Vasa, di molti anni più
giovane di lui.
Quando
maturarono le prime schermaglie tra il Vasa e i Pileri, Michele Tanxu
si trovò quindi in prima fila, nella posizione di sostenitore del
cugino; infatti non esitò ad incaricarsi personalmente di vendicarlo,
dopo l’agguato del giorno di San Giuseppe.
Il Vasa era
ancora convalescente, quando il Tanxu, tese l’agguato ai Mamia nel
quale perse la vita. Era il fratello prediletto del Muto, l’unico in
famiglia in grado di proteggerlo e capirlo, in quanto il Muto si
esprimeva a monosillabi difficilmente comprensibili.
L’uccisione del
fratello maggiore convinse anche Bastiano a prendere decisamente le
parti del Vasa, che, intuendo la sua voglia di vendetta, si sostituì a
Michele Tanxu, prendendo il Muto sotto la sua tutela e facendone il suo
braccio armato, implacabile e preciso come il più fedele dei sicari.
SEBASTIANO TANXU
Soprannominato
il Muto di Gallura. Era nato in Li Colti (Trinità d’Agultu e Vignola)
nel 1827, sestogenito di otto figli naturali di Andrea e di Agostina
Bianco “Razzu”.
Fu battezzato a
Tempio, il 29 ottobre 1827. Il fatto che non sia stato battezzato nel
luogo natìo, strano a prima vista, diventa comprensibile se si
considera che gli abitanti delle campagne, per l’assistenza religiosa
erano soliti rivolgersi, indifferentemente, a una o all’altra delle
chiese esistenti nel territorio.
È il
personaggio più importante nella storia narrata dal Costa, che lo
presenta come un infallibile tiratore di fucile, belva implacabile nel
perseguire la fazione opposta dei Mamia. Descritto in pratica come la
mano armata, utilizzata dal cugino per inseguire i suoi turpi desideri
di vendetta, nella realtà fu il classico coperchio delle pentole del
diavolo, buono per tutte le occasioni per addossargli delitti mai
compiuti, e scagionare i veri esecutori. Il Tanxu riassumeva tutte
queste caratteristiche in maniera ottimale; tra l’altro, essendo
sordomuto, non sempre poteva essere a cognizione di quello che si
tramava ai suoi danni, e tantomeno scagionarsi personalmente a parole.
Sin dalla
giovane età, visse da povero disgraziato infelice, evitato da tutti;
basta pensare che i suoi non gli facevano nemmeno accudire il bestiame,
a causa del suo carattere irascibile e violento; inoltre a causa della
sua infermità non poteva sentire i richiami nè impartire ordini per un
corretto governo degli armenti.
Secondo la
tradizione, dal punto di vista fisico presentava una corporatura
abbastanza minuta e smilza, capigliatura rossiccia, viso affilato e
naso dal profilo inconfondibile. Nella sua giovinezza, visse quasi
sempre a Li Colti; ad Aggius si recava solo nel mese di settembre,
assieme a tutta la famiglia. Dopo la morte dei genitori pare non sia
più ritornato in paese, vivendo sempre in campagna.
L’unico viaggio
di una certa rilevanza fu quando, in compagnia di uno zio e di un altro
coetaneo, si recò a Sennori, in una annata di particolare carestia, per
transumare un branco di suini in un bosco ghiandifero. Vi è da
sottolineare il fatto che le persone che lo conobbero personalmente, o
che ebbero qualche rapporto con il Muto, oltre i parenti, furono
pochissime.
Essendo
sordomuto, non fu neanche convocato per la visita di leva. A proposito
della sua infermità si potrebbe azzardare l’ipotesi che ci fosse
qualche predisposizione ereditaria, nel casato della madre, i Bianco
Razzu. Analizzandone le genealogie, si scopre che, tra la fine
dell’Ottocento e la seconda metà del secolo scorso, nell’ambito dei
discendenti di quel gruppo familiare si sono avuti almeno altri tre
casi simili, più o meno recenti.
La vera
tragedia del Muto fu però la carenza di affetti che lo colpì sin
dall’adolescenza. Il 4 gennaio 1841, infatti morì il padre Andrea e,
venti mesi dopo, il 2 ottobre 1842, la madre Agostina Bianco. Da allora
visse oppresso dalla sorella Maria Rosa, arcigna e manesca, che lo
riempiva di botte, e lo buttava fuori di casa, ogni qualvolta provava
ad alzare la cresta; in questà facoltà era imitata dalla cognata, Maria
Bianco, e dal di lei coniuge Michele Antonio Tanxu, che riversava nel
fratello sordomuto tutte le frustrazioni represse che non riusciva a
sfogare all’esterno della famiglia.
In questa
situazione, l’unico punto di riferimento positivo per Bastiano era il
fratello maggiore Michele, che rappresentava tutto quello che lui
avrebbe voluto essere.
Dopo la morte
di Michele, l’unica persona che si prese cura di lui fu il cugino
Pietro Vasa, che lo portò con se durante gli anni della latitanza,
nelle campagne di San Giuseppe di Cugurenza e San Gavino di Petra
Maina. Quando il Vasa lo portò via, i suoi familiari si fecero il segno
della croce, in quanto speravano di non rivederlo mai più.
Da allora quasi
tutti gli omicidi perpetrati a danno dei Mamia furono attribuiti al
Muto. Però almeno uno, quello forse più famoso, da documenti ufficiali
pare non sia da attribuire al Tanxu: cioè quello del suo “mancato
suocero” Antonio Stefano Pes, avvenuto la sera del 5 luglio 1857, nei
pressi del suo stazzo di L’Avru, in località La Schina di Giagazzu
(Viddalba).
Il Costa
descrive l’avvenimento in maniera molto dettagliata: dai preparativi
dell’agguato all’esecuzione dell’omicidio, fino a quando il vecchio Pes
morente accusa il Muto, del suo assassinio.
In realtà
dell’omicidio fu accusato un pastore di Nigolaeddu (stazzo presso Li
Colti), Francesco Maria Carbini noto Brandincu, che fu catturato dai
carabinieri il primo settembre 1857, accusato anche del tentato
omicidio di un altro pastore suo confinante, Pietro Addis noto Monigu.
Il Carbini
comparve davanti alla Corte d’Assise di Sassari il 28 novembre 1861,
per essere giudicato sui due delitti attribuiti; riconosciuto colpevole
per l’omicidio del Pes, fu condannato ai lavori forzati a vita. Con
Regio Decreto di Grazia del 16 novembre 1873, la pena gli fu ridotta a
trent’anni.
Il Muto ritornò
a Li Colti nell’estate del 1857, dove però non si stabilì nella casa
paterna, ma in un terreno adiacente dove si costruì un rozzo rifugio.
Scomparve dopo qualche mese e nessuno seppe più nulla di lui.
Sulla fine del
Muto, il Costa ricama una storia tragica, avvolgendo il tutto nel
mistero e sciorinando ipotesi ben lontane dalla verità dei fatti. In
realtà, alla fine di maggio del 1858, in località Santa Barbara, presso
Li Colti, fu ucciso da Francesco Antonio Muretti, suo amico intimo, con
il quale aveva condiviso i lunghi anni della faida e della latitanza.
Il Muto del
quale Pietro Vasa sfruttando il suo odio per gli uccisori del fratello
Michele, ne aveva fatto un sicario fedele e preciso, dopo la fine della
faida era diventato un personaggio scomodo in tutti i sensi. Pertanto
anche i suoi parenti avrebbero gradito una sua eliminazione. Dall’altra
parte vi era Giovanni Antonio Spano noto Ciacciaredda (chiamato
Giuseppe nel libro) che non avrebbe mai potuto coronare il suo sogno
amoroso con Gavina (all’anagrafe Francesca Pes) fino a quando fosse
rimasto in vita il Tanxu.
Alla uccisione
del Muto collaborò anche un pastore di Viddalba Agostino Peru
Mazzittoni, detto “lu Gregu”. Il Costa non fa il suo nome tuttavia è
identificabile in uno dei tre uomini che “uscirono da uno dei crepacci
di granito che sono alle falde di Cucurenza. Erano tutti armati di
fucile, e col cappuccio tirato sugli occhi”.
Il ruolo
determinante nell’epilogo della vicenda fu quello di Giovanni Antonio
Spano “Ciacciaredda” , il quale si adoperò per l’omicidio del Muto con
solerzia e abilità, promettendo al Macciaredda un salvacondotto in
cambio della vita del Muto.
Dopo
l’uccisione, il cadavere di Sebastiano fu sepolto nella zona di Littu
di Zoccaru, a breve distanza dalla foce del Riu di Li Cossi. Al fine di
nascondere ogni traccia, il tumulo, costituito da sabbia finissima, fu
calpestato dal bestiame di un vicino ovile.
Il naso
aquilino inconfondibile del Tanxu fu asportato dal resto del corpo e
portato, come trofeo, a Giovanni Antonio Spano, al fine di dimostrargli
che il Muto era stato definitivamente tolto di mezzo. Francesca Pes,
non avrebbe mai acconsentito a seguire lo Spano essendo in vita il
Muto, per timore di rappresaglie.
Secondo una
tradizione orale esistente ancora oggi in L’Avru, la vista del solo
naso non bastò a convincere lo Spano; pertanto i suoi uccisori, dopo
due giorni disseppellirono il cadavere del Muto, e lo portarono
all’incredulo Ciacciaredda. Il corpo dell’ucciso fu poi occultato in
una pietraia nei pressi della strada che portava allo stazzo di
Gambaidonna, non lontano da L’Avru. L’uccisione del Muto non causò
altre inimicizie. I parenti non pensavano minimamente di vendicarlo,
anzi, come si è detto, era diventato un personaggio scomodo da gestire
e, per la propria e altrui tranquillità, erano ben felici di non averlo
più fra i piedi.
Un mese dopo i
parenti andarono dal parroco di Trinità d’Agultu, Giovanni Andrea
Stangoni, per far celebrare una messa in suffragio dell’anima del Muto.
Il 24 giugno
1858 lo Stangoni scrisse l’atto conclusivo sull’esistenza di Sebastiano
Tanxu annotando il fatto in una pagina del Liber Mortuorum della
parrocchia di Aggius: “surdus atque mutus deficit ab ipsiusmet
propinquis tamquam a vivis sublatus ad exequias celebrandas huic
parochiae denunziatur. Celibis erat.
FRANCESCO ANTONIO MURETTI
Il famoso
bandito “Macciaredda”, presunto uccisore del Muto. Nel libro del Costa,
non compare mai il suo nome. Aveva sposato una cugina di Pietro Vasa,
del quale era anche coetaneo, essendo nato il 5 febbraio 1816. I suoi
genitori erano Salvatore Muretti “Macciaredda” e Margherita Addis
“Melaju” e abitava in uno stazzo di Lu Muddetu, regione subcostiera ad
ovest di La Paduledda.
Il Macciaredda,
latitante da diversi anni, era un amico del Muto, forse l’unica persona
in grado di avvicinarlo, superando la sua diffidenza. Assieme avevano
vissuto la lunga faida condividendo i pericoli e le intemperie della
vita alla macchia.
Lo Spano
Ciacciaredda però sapeva come muovere le sue pedine. Avvicinato il
Muretti gli prospettò la possibilità di ottenere il condono totale per
i delitti dei quali era accusato, e ritornare a una vita normale, in
cambio della pelle di Bastiano Tanxu. Il Muretti accettò e qualche
tempo dopo in una collina nei pressi della chiesa di Santa Barbara, non
lontano da Trinità d’Agultu, uccise il Muto a tradimento.
Anche il
Muretti Macciaredda qualche anno dopo, esattamente il 19 maggio 1868,
nei pressi della chiesa di San Pietro martire, fu colpito a morte,
mentre in compagnia di un suo nipote si recava a Trinità d’Agultu, ...
ma questa è un’altra storia...
La sua morte
causò una nuova inimicizia che, dopo alcuni omicidi, fu conclusa con le
paci celebrate a Trinità d’Agultu nel 1875. Per la buona riuscita delle
paci, un ruolo decisivo fu quello svolto da Salvatore Muretti,
soprannominato Carrozza, di professione carabiniere, figlio del defunto
Francesco Antonio, e che tanto si impegnò in febbrili trattative prima
di giungere ad una soluzione positiva.
GIOVANNI ANTONIO SPANO CIACCIAREDDA
Nel romanzo del
Costa è Giuseppe, l’uomo che scrisse la parola fine a tutta la storia.
Soprannominato Ghjuann’Antoni Mannu, era nato verso il 1830, da Luca
Spano e da Vittoria Pes, quindi era nipote di Anton Stefano Pes. Di
famiglia agiata e dal carattere turbolento, ne combinò un po di tutti i
colori prima di approdare a L’Avru. Bravissimo tiratore con il fucile
era ovviamente appassionato cacciatore. Le altre sue attività preferite
erano domare buoi o cavalli selvaggi. Oltre queste attività, normali in
quel periodo, ne praticava altre meno nobili. Non bisogna dimenticare
che anche nel territorio di Bortigiadas in quegli anni si visse una
lunga guerra tra famiglie. La faida iniziata intorno al 1830, vide
contrapposte la famiglia degli Addis Zinilca da una parte e dall’altra
quella degli Spano Scroccia, spalleggiati dagli Spano Ciacciaredda.
L’inimicizia
terminò nel 1855, e fu anch’essa al centro di un romanzo intitolato
“Notte Sarda” pubblicato, nel 1910, da Pietro Casu (1878-1954).
Come ogni faida
degna di questo nome anche questa tra i Zinilca e gli Scroccia, contò
decine di morti ammazzati, diversi giuramenti di pace eterna e anche
una storia d’amore conclusasi in maniera tragica.
Sullo sfondo di
questa faida, Giovanni Antonio Spano, all’età di 17 anni, per banali
motivi, attentò alla vita di alcuni suoi concittadini: Giovanni Deiana,
Giovanni Cossu Picciocu e Proto Oggiano, tenente dei barracelli.
Già all’età di
vent’anni era una persona temuta e rispettata; qualche anno dopo,
cancellati alcuni peccati di gioventù, eccolo agire in veste di
Commissario di Campagna.
A L’Avru
Ciacciaredda arrivò nei primi mesi del 1857, non certo a caccia di
selvaggina, ma chiamato dalla zia acquisita, Domenica Oggiano, in
quanto un tale sordomuto, cugino di Pietro Vasa, le insidiava la
figlia, Francesca Pes.
In poco tempo
sistema le cose: in primo luogo fa innamorare la giovane pastorella
Francesca, e dopo pochi mesi la sposa in gran segreto a Bortigiadas, il
7 giugno 1857, con la complicità della suocera, di due testiA? ?i?moni
compiacenti e, ovviamente, del sacerdote, nella persona di Giovanni
Battista Peru, aggese.
A questo punto,
dopo avergli soffiato la donna, poteva dedicarsi al Muto. Lo fece con
grande solerzia: più volte tentò di stanarlo dai luoghi della sua
latitanza. Sebastiano però riuscì ad eludere le imboscate;
Ciacciaredda, gli tese anche un agguato, in località La Multa, gli
sparò personalmente, e seppure da posizione propizia, incredibilmente
non lo colpì.
Nel frattempo
circa un mese dopo il matrimonio segreto di Bortigiadas, una mano
oscura fece fuori Anton Stefano Pes, padre di Francesca.
Il Pes aveva
scacciato dal suo stazzo sia il Muto che i suoi amici, per cui era
logico che qualcuno complottasse per fargliela pagare.
In ogni caso il Tanxu era andato via da L’Avru ed era rientrato al suo luogo natìo, Li Colti.
È a questo
punto che lo Spano incontra il Muretti Macciaredda e gli prospetta la
possibilità di avere una lunga vita serena, senza più guai con la
legge, in cambio della pelle del Muto.
Qualche mese dopo, come si è già detto, il Muto fu ucciso nei pressi del suo luogo natìo.
Archiviata anche la pratica relativa al Muto, per la sua completa tranquillità futura, rimaneva da sistemare solo Pietro Vasa.
Fu così che
quel freddo mattino di fine febbraio del 1858, dopo averlo
accuratamente preparato, mise in pratica il piano per la cattura del
Vasa. Come già descritto, fu lo stesso Spano a ferire il Vasa e lo
avrebbe certamente finito a sangue freddo, se, nel frattempo, non
fossero sopraggiunti i carabinieri, che inseguivano il bandito.
FRANCESCA PES
Nel romanzo del
Costa è Gavina, la giovane pastorella di L’Avru, che fece innamorare
Bastiano Tanxu. Il Muto era arrivato a L’Avru, portato dal cugino
Pietro Vasa. Qui si era stabilito e, in cambio di un letticello e di un
tozzo di pane, si dedicava ai lavori dello stazzo, come portare qualche
fascio di legna, zappare l’orticello o piccoli lavoretti artigianali
nei quali era molto dotato.
Fu a questo
punto che il Costa ricamò un’intensa storia d’amore. In realtà fra i
due non ci fu assolutamente niente. A quei tempi, una ragazza non si
dava in moglie a un minorato, come poteva essere un sordomuto. Quindi
il suo era un amore senza speranza, quantunque le sorelle e la madre di
Francesca non fecero niente per scoraggiare il focoso amante, anzi
talvolta gli facevano balenare la possibilità di dargli in sposa
l’oggetto del suo desiderio. Quando si resero conto di essere in un
tunnel senza uscita, e conoscendo l’indole del Muto, sistemarono le
cose chiamando in loro soccorso il cugino Ciacciaredda.
Gli avvenimenti piu' rilevanti in ordine cronologico
Il Costa parla
di oltre settanta omicidi. In realtà furono molti di meno, secondo
quanto risulta dai dati d’archivio, verificati più volte e pertanto da
considerare attendibili.
Dalla
consultazione degli archivi parrocchiali dei paesi interessati,
emergono i seguenti dati: dal 19 marzo 1850, quando fu ferito il Vasa,
al 26 maggio 1856, data delle paci di Tempio, sono stati registrati 27
omicidi, e non tutti ascrivibili a qualcuna delle due parti. È sicuro
che non tutti venivano registrati negli archivi parrocchiali, però
anche sulla base del confronto con altri dati si possono giudicare
sufficientemente attendibili. Per esempio alcuni omicidi non registrati
(Maria Maruddali, Pancrazio Oggiano, Pietro Spano, Paolo Addis Mattola)
avvenuti nelle campagne tra Trinità d’Agultu e Bortigiadas sono
sicuramente attribuibili alla faida. Anche aggiungendo questi si è
sempre lontani dalla quantità riportata dal Costa.
Qui viene
riportato un elenco dei principali avvenimenti delittuosi; alcuni di
essi non sono sicuramente da attribuire alla faida. A questo proposito
vi è da rilevare che, come sempre succede in questi casi, chi aveva un
conto da regolare con qualcuno appartenente alle due fazioni in lotta,
ne approfittò apertamente, in quanto il delitto sarebbe stato
attribuito alla parte contraria.
19 marzo 1850: ferimento di Pietro Vasa.
Il Vasa fu
colpito da una pallottola mentre, dalla chiesetta campestre di San
Giuseppe di Cugurenza, rientrava al suo stazzo di Lu Naragheddu. Il
fatto avvenne nel sito chiamato La ‘ena di li Cabaddi, dove ancora oggi
si trova una sorgente, e dove il Vasa si era attardato concedendosi una
pausa. Soccorso dai suoi parenti del casato Oggiano Tuxoni che
abitavano nel vicino stazzo di Petra Luzana, adagiato su una
improvvisata barella di frascame, fu trasportato a casa sua. Il parroco
della Trinità d’Agultu, il tempiese Pietro Garrucciu, recatosi dal Vasa
per somministrargli i sacramenti, alla fine si rifiutò di dargli
l’assoluzione in quanto anziché perdonare i suoi feritori incitava il
cugino Michele Tanxu alla vendetta. Questo fatto fece nascere un
piccolo battibecco tra il Vasa e il Garrucciu che, probabilmente per
paura di qualche rappresaglia, il giorno stesso abbandonò la parrocchia
e non vi fece più ritorno. Rientrò ad Aggius e da lì, dopo qualche
tempo, se ne andò a Tempio.
Il ferimento
del Vasa fu la scintilla che accese definitivamente le polveri; ma chi
erano stati i feritori? Al primo approccio furono accusati i Pileri
che, approfittando della situazione di attrito con il mancato suocero,
potevano far fuori Pietro Vasa addossandone la colpa ai Mamia. I
Pileri, confinanti con i Vasa, ma parenti dei Mamia, erano certamente
gente di pochi scrupoli, malvisti anche dal loro parente Antonio Mamia.
Però lo stesso discorso si poteva fare per i Mamia che, volendo dare
una lezione al Vasa, colpevole per il mancato matrimonio con
Mariangela, avrebbero approfittato della ormai cronica inimicizia di
costui con i Pileri per far ricadere la colpa su questi ultimi. Il clan
dei Vasa comunque diede la colpa al Mamia, almeno in qualità di
mandante.
Nel frattempo,
Pietro Vasa, da tutti dato per spacciato, dimostrò invece di avere la
pelle dura, e riuscì a guarire dalla ferita riportata nell’attentato.
Ripresa la vita normale, il suo unico scopo, da allora in poi, fu
quello di vendicarsi; il suo odio, ovviamente, lo riversò in misura
maggiore nei confronti del mancato suocero, Antonio Mamia.
28/29 aprile 1850: uccisione di Michele Tanxu.
Il Tanxu, come
si è detto, si incaricò personalmente di vendicare il ferimento del
cugino Pietro Vasa. Qualche giorno dopo, a fine marzo, tese un agguato
a Pietro Mamia, di Li Colti, ritenuto colpevole dell’attentato a Pietro
Vasa, e lo ferì in maniera abbastanza grave, ma non mortale. Il Tanxu
non pago del risultato ottenuto, qualche giorno dopo, tese un agguato
al vecchio Michele Mamia che, in compagnia di Giovanni Maria Malu,
stava dissodando un terreno di sua proprietà, in località Li Colti.
Questa volta non gli andò altrettanto bene: la pronta reazione dei due
che, data la situazione, portavano sempre le armi a tracolla, portò al
suo ferimento. Michele Tanxu, vista la mala parata tentò la fuga, ma fu
raggiunto, ormai agonizzante, dai due del clan Mamia che posero fine
alla sua esistenza sgozzandolo con la “cultedda”. Il suo cadavere fu
poi sotterrato nella località chiamata La Maccia di L’Acca, situata tra
la Punta di Canneddi e Tinnari (Trinità d’Agultu e Vignola).
31 maggio 1850: uccisione di Giovanni Addis Nieddu.
Non meglio identificato; fu ucciso e il suo cadavere dato alle fiamme.
15 agosto 1850: uccisione di Michele Mamia.
Fu ucciso sulla strada che da Viddalba porta ad Aggius, mentre rientrava dal campo del Coghinas.
Ormai si era già in uno stato di guerra dichiarata fra Pietro Vasa e il suo mancato suocero, Antonio Mamia.
Il Vasa
ritenendo il Mamia mandante dei misfatti perpetrati nei mesi
precedenti, nei suoi confronti, organizzò un agguato per farlo fuori,
lungo la strada che dal campo del Coghinas porta ad Aggius. Il Mamia,
uomo previdente, tagliò invece per una scorciatoia e per la strada
maestra passò il proprio figlio Michele, appena quindicenne. Il ragazzo
fu ucciso presso lo stazzo di Gambaidonna, lungo la strada che partendo
da Viddalba, andava a congiungersi con quella da Trinità d’Agultu ad
Aggius.
Da taluni, fu
ritenuto direttamente responsabile, dell’esecuzione materiale
dell’omicidio, addirittura il capo clan, Pietro Vasa. In realtà a
costui non interessava affatto l’uccisione del ragazzo, il vero
bersaglio era Antonio Mamia. Il tragico avvenimento fu conseguenza del
fatto che uno dei partecipanti all’agguato, Battista Vasa, di
Monticareddu, disattese agli ordini di Pietro.
21 agosto 1850: Uccisione di Caterina Bianco “Razzu”, madre di Pietro Vasa.
Fu uccisa in Lu
Naragheddu, non lontana dalla sua abitazione, nei pressi di una
sorgente naturale, dove si era recata per attingere l’acqua.
Assieme
all’omicidio di Michele Mamia, fu il fatto che fece perdere ogni
speranza di ricomporre amichevolmente le liti fra le due fazioni.
Pietro Vasa, pazzo di rabbia, e con il cuore ancora più pieno di odio
verso i Mamia, da quel momento imboccò decisamente la strada della
guerra totale.
8 novembre 1850: uccisione di Nicola Cioncia, anni 25.
Fu sepolto a San Pietro di Rudas. Era imparentato con i Vasa per parte di padre.
3 giugno 1851: uccisione di Pietro Zancanu, anni 50.
Fu sepolto a San Pietro di Rudas. Ritenuto un sicario dei Vasa.
11 giugno 1851: omicidio di Comita Pirodda “Alcatu”, di Giovanni e di Antonia Tirotto, anni 27
In relazione
parentale con i Mamia da parte di madre, fu ucciso presso La Paduledda
e sepolto nel cimitero di Trinità d’Agultu. Il presunto omicida era
Giovanni Antonio Oggiano “Tuxoni”, parente dei Vasa.
Dal resoconto
processuale a carico dell’omicida, si riesce a risalire al movente del
delitto e si scopre che, anche se i due appartenevano alle due fazioni
contrapposte, la faida c’entra marginalmente. Qualche tempo prima il
Comita Pirodda, assieme al fratello Pietro, avevano accorpato
illegalmente, alla loro proprietà un appezzamento di terreno
dell’Oggiano, il quale fece ricorso al pretore di Aggius; il Pirodda
allora, per ritorsione uccise un cavallo del Tuxoni, che si vendicò
prontamente.
Dopo l’omicidio
il Tuxoni si diede alla latitanza; fu arrestato quattro anni dopo,
nelle campagne di Tisiennari (Bortigiadas). Le fasi della sua cattura
furono abbastanza concitate, poichè l’Oggiano si difese strenuamente e
riuscì anche a ferire l’appuntato dei carabinieri Cosimo Macis.
Il processo
celebrato a Sassari nell’agosto 1856, si concluse con la condanna
all’ergastolo dell’imputato. In questo processo, anche se poco
attinente, risulta interessante la dichiarazione di Maria Leonarda
Oggiano, teste citata dalla Difesa, la quale afferma che “nei giorni
antecedenti la festa della Santissima Trinità d’Agultu, per correttezza
e tradizione, in terra di Aggius non si ammazza mai nessuno”.
21 ottobre 1851: uccisione di Michele Addis “Scriccia”, anni 40.
Difficile
stabilire i legami parentali, ma sicuramente appartenente alla fazione
dei Vasa, per via delle sue relazioni con la famiglia Tanxu.
In questo
periodo alcuni componenti dei due clan, cercarono di sfuggire alla
faida cambiando luogo di residenza. Alcuni familiari del Vasa si
rifugiarono dalle parti di Tergu, in Anglona, dove rimarranno fino alla
cessazione delle ostilità. Altrettanto fecero alcuni membri della
famiglia Pileri, rifugiandosi nella zona di San Pantaleo (Olbia) e
Monti di Mola (Arzachena).
19 febbraio 1852: uccisione di Luca Oggiano.
L’omicidio avvenne presso lu Monti Spirratu; fu sepolto a Trinità d’Agultu. Probabilmente parente dei Vasa.
14 luglio 1852: uccisione di Antonio Pileri, anni 50.
Appartenente alla fazione dei Mamia, per vincoli di parentela. Sepolto a Trinità d’Agultu.
08 agosto 1852: uccisione di Agostino Pirodda “Boddu”, anni 35, sepolto a Trinità d’Agultu. Difficile attribuirlo ad una delle due parti; probabilmente era di quella dei Mamia.
28 maggio 1853: omicidio di Antonio Vasa, anni 58.
Fu ucciso in La
‘èna Longa (Nigolaeddu-Li Colti) e sepolto a Trinità d’Agultu. Figlio
di Pietro Vasa e di Martina Cioncia, pertanto fratello del padre del
Pietro Vasa, fidanzato di Mariangela Mamia.
All’indomani di
questo omicidio, in una tumultuosa seduta del consiglio comunale di
Aggius, fu deliberato di richiedere l’intervento del Governo, al fine
di calmare gli animi e di far cessare le attività delittuose, che
stavano facendo precipitare tutto il territorio in un baratro senza
fine. Analoga richiesta era stata fatta il 18 dicembre 1851,
all’indomani dei primi avvenimenti delittuosi.
Ad Aggius era
stato insediato un presidio di bersaglieri, sequestrate armi nel
villaggio, e arrestati diversi individui sospetti, anche nelle
campagne. Tuttavia ciò non valse certo a raffreddare i propositi
bellicosi degli abitanti degli stazzi.
Da rilevare che
nella seduta del 1853, fra i consiglieri comunali, erano assenti sia il
vecchio capo clan Antonio Mamia, sia Nicola Vasa, cugino di Pietro Vasa
e quindi entrambi parti in causa.
Con una
successiva delibera del 2 giugno 1854 il Consiglio comunale chiese che
si “inviassero carabinieri a cavallo per lo sgombro dei sicari
malviventi, poiché ora più che mai esacerbati gli animi delle
complicate fazioni e i delitti di giorno in giorno progrediscono”. In
pratica la situazione era estremamente delicata in quanto dovunque
regnava il terrore e la paura di agguati era sempre nella mente di
tutti.
24 giugno 1853: omicidio di Antonio Addis “Mamia” di Pietro e di Maddalena Satta.
Sepolto ad Aggius. Secondo quanto riporta il Costa nei mesi precedenti
l’agguato mortale al Mamia vi fu una certa tregua nelle uccisioni; la
sua affermazione non è confermata dalle fonti archivistiche.
5 febbraio 1854: omicidio di Matteo Vasa, di Pietro e di Martina Cioncia, anni 58, ucciso in la Cunchiggjola-Cugurenza, sepolto a Trinità. Zio paterno di Pietro Vasa.
3 aprile 1854: omicidio di Agostino Peru Mamia noto “Cojareddu”, di Pietro e di Caterina Mamia, ucciso in Lu Capu di Maltuzzu-Li Colti, sepolto a Trinità d’Agultu.
12 aprile1854: omicidio di Gavino “Colbu” avvenuto in località L’Alba di la Ruda, presso Li Colti.
10 giugno 1854: omicidio di Nicola Moro, anni 35, ucciso in Cugurenza, dai carabinieri, ai quali si era ribellato.
13 luglio 1854: omicidio di Giovanni Antonio Pirodda, anni 55. Fu ucciso presso La Paduledda, sepolto a Trinità d’Agultu.
30 luglio 1854: omicidio di Giuseppe Andrea Peru, anni 49, ucciso presso il Riu Sirena, sepolto ad Aggius.
3 ottobre 1854: omicidio di Giovanni Battista Muretti Mamia, noto Bistenti, anni 40.
17 dicembre 1854: omicidio di Giovanni Maria Malu “Bagassu”, anni 50,
pastore di Cascabraga. Il suo cadavere fu rinvenuto, orrendamente
mutilato, nel luogo detto Lu Caminu Mannu, nei pressi di L’Alburu di la
Bandera in territorio di Bortigiadas, nel cui cimitero fu poi
seppellito.
10 luglio 1855: omicidio di Salvatore Pileri di Michele, anni 70, sepolto
ad Arzachena. Uno dei tanti che era emigrato all’inizio della faida,
onde evitare guai peggiori. Era del clan dei Mamia.
22 luglio 1855: omicidio di Andrea Bianco “Rana” di Pietro e di Gerolama Suelzu, sepolto ad Aggius.
8 novembre 1855: omicidio di Nicola Pirodda di Antonio e di Maria Vittoria Pirodda, anni 28, ucciso in la Paduledda, sepolto a Trinità d’Agultu.
14 novembre 1855: omicidio di Francesco Maria Carbini “Brandincu”, anni 41 (n. 30.01.1814), ucciso in Vaddi Muroni, sepolto a Trinità d’Agultu. Affiliato alla parte dei Vasa.
30 gennaio 1856: omicidio di Pietro Muntoni, ucciso in Lu Muddetu.
26 maggio 1856: Paci di Tempio...
Con questo atto fu sancita ufficialmente la fine delle inimicizie fra i Vasa e i Mamia.
Nei mesi
successivi a tale cerimonia, la catena di delitti si allungò
ulteriormente. Basti pensare che dal 26 maggio 1856 al 14 luglio 1860
furono commessi altri nove omicidi.
Tra i fatti di sangue successivi alle paci di Tempio i principali furono:
13 dicembre
1856: omicidio di Pietro Pirodda (n. 4.11.1835) di Antonio e di Maria
Vittoria Pirodda, ucciso presso la Paduledda, sepolto a Trinità
d’Agultu.
5 luglio 1857:
omicidio di Anton Stefano Pes. Secondo il Costa fu ucciso dal Muto,
poer vendicarsi del fatto che non gli avevano concesso la mano della
giovane figlia Francesca.
??.??.1858 – Sebastiano Tanxu di Andrea e di Agostina “Razzu”, soprannominato “il Muto di Gallura”, sepolto in località ignota.
18 marzo 1859: muore Pietro Vasa, nel carcere di Tempio.
Con la sua
fine, cala finalmente il sipario sulla inimicizia fra i Vasa e i Mamia,
in quanto sono scomparsi tutti i principali attori. In realtà i fatti
di sangue in Agultu continueranno ancora per molti anni perché nel
frattempo si creeranno nuove inimicizie.
A questi
nominativi si dovrebbero aggiungere anche quelli che, implicati nella
faida e assicurati alla Giustizia, perirono nelle prigioni, dislocate
anche fuori della Sardegna.
Fra di loro si ricordano:
- Martino Tirotto, anni 37, deceduto a Sassari nel 1862;
- Francesco Carbini Brandincu, di Nigolaeddu;
- Leonardo Tirotto, anni 44, deceduto a Genova nel 1859;
- Mattea Muretti, anni 40, deceduta a Sassari nel 1862;
- Giovanni Antonio Vasa, noto Baddarocculu, anni 36, deceduto nel carcere di Tempio Pausania nel 1863;
- Michele Suelzu Buleddu, anni 50, deceduto nel carcere di Tempio Pausania nel 1865;
- Martino Peru, anni 50, deceduto nel carcere di Tempio Pausania nel 1874;
- Andrea Addis
Ugnutu, anni 30, di Migalazzu, coniugato con una Domenica Mamia,
deceduto nel carcere di Tempio Pausania nel 1876;
- Giovanni Tuxoni, anni 62, deceduto nel 1880 a Pozzuoli, dove era condannato ai lavori forzati
Opere letterarie e canzoni ispirate alla faida
IL MUTO DI GALLURA di Enrico Costa, pubblicato nel 1884.
E’ ovviamente
l’opera più conosciuta. Scritta un quarto di secolo dopo la conclusione
della faida. Oltre i ricordi ancora freschi e le ferite ancora non
completamente rimarginate, erano ancora in vita numerosi individui che
l’avevano vissuta in prima persona come Michele Antonio Tanxu, fratello
del Muto.
Il Costa si
guardò bene da attingere informazioni da parte del clan dei Vasa;
preferì cercarle ad Aggius, dove i ricordi erano più sbiaditi e dove,
talvolta, i resoconti arrivavano alterati, rispetto agli episodi,
realmente accaduti nelle lontane campagne. In ogni caso, essendo le
tristi vicende concluse da poco, la gente ne parlava malvolentieri.
Il Costa non
trovò allora di meglio che recarsi a Bortigiadas, da Giovanni Antonio
Ciacciaredda e Francesca Pes, che non conoscevano, in maniera veramente
diretta, le vicende della faida in ogni particolare. A questo punto lo
scrittore sassarese riuscì però ad avere un quadro, seppur di parte, di
tutto quanto era successo; però rimescolò le carte a suo piacimento al
solo fine di raccontare una storia che potesse interessare i lettori.
In primo luogo raddoppiò il numero di vittime della faida, portandolo a
più di settanta, e poi cambiò i nomi dei suoi informatori: Giovanni
Antonio diventò Giuseppe e Francesca diventò Gavina. Non ebbe bisogno
di fare un grande sforzo di fantasia; gli bastò pensare alle due chiese
campestri che, dall’alto delle loro colline, dominavano le campagne
teatro degli avvenimenti: San Giuseppe di Cugurenza e San Gavino di
Petra Maina.
Tutta questa
serie di circostanze, causò localmente qualche malumore, soprattutto
nel clan dei Vasa, i quali affermarono spesso che il Costa aveva
presentato i fatti dal punto di vista dei Mamia. Il vecchio Pietro
Oggiano, morto qualche anno fa, discendente, per parte materna, da un
fratello di Pietro Vasa, sull’argomento diceva sempre che se, all’epoca
della pubblicazione, fosse stato ancora vivente lo zio... al Costa
sarebbe capitato qualche cosa di brutto...
IN GALLURA di Arturo Garzes (1856-1935).
Dramma teatrale
in 2 atti pubblicato nel 1890; le vicende narrate, non riprendono
quelle della faida, tuttavia gli ambienti, i personaggi, lo stesso
luogo dove si svolge l’azione, L’Avru, sono ispirati al libro del
Costa.
I VASA E I
MAMIA, (di Rossella Conz, Pino Massara e Franco Migliacci) titolo di
una canzone presentata al concorso “Un disco per l’estate 1967”,
eseguita dai Los Marcellos Ferial, gruppo allora molto in voga.
La canzone ha
qualcosa a che vedere con le vicende narrate nel Muto di Gallura. Vi si
racconta infatti di una faida tra due famiglie (non è specificato se
sono sarde) a causa di una capra dei Vasa, uccisa dai Mamia perché
sorpresa a brucare l'erba sul loro territorio. Il fattaccio dà la stura
ad una serie di sanguinose vendette che si concludono con
l'annientamento totale delle due famiglie.
La canzone,
qualche mese prima, fu presentata alle selezioni per il Festival di
Sanremo 1967; gli organizzatori, per evitare polemiche, la fecero
fuori, anche perché i discorsi sul banditismo sardo facevano parte
dell’attualità quotidiana, grazie soprattutto alle gesta di Graziano
Mesina e Miguel Atienza, che all’epoca riempivano le prime pagine dei
giornali; non si voleva presentare una canzone, che fosse minimamente
ricollegabile ai luoghi e ai soliti discorsi comuni relativi alla
Sardegna.
La canzone fu
poi presentata anche al Cantagiro che, all’epoca, veniva trasmesso in
televisione. Per l’occasione, la canzone venne “purgata” in alcune
parti del testo.
Per la cronaca
il disco non ebbe un grandissimo successo di vendite, anche se veniva
trasmesso regolarmente tutti i giorni dalle stazioni radio.
DUE DONNE AD AGGIUS, di Pietro Peru, aggese, pubblicato a Napoli nel 1982.
L’autore
basandosi su resoconti della tradizione orale, riporta, in maniera
romanzata, ma con una certa pretesa di verità storica, la vicenda della
faida vista dalla parte di due donne: Mariangela Mamia, fidanzata di
Pietro Vasa e Francesca Pes, la donna della quale si era invaghito il
Muto.
Il libro riporta numerose inesattezze riguardo ai fatti e ai luoghi reali della vicenda.
IL MUTO DI GALLURA a fumetti, di Simone Sanna, pubblicato nel 2003.
La vicenda raccontata ha poco da vedere con l’opera del Costa e con la vera storia.
Simone Sanna,
aggese, è autore anche di diverse altre opere, sempre a fumetti,
ispirate alla storia e tradizioni locali. In particolare, recentemente,
ha curato una riduzione a fumetti di Cenere di Grazia Deledda
IL MUTO DI
GALLURA in versi di sestine, in gallurese di Bortigiadas, pubblicato
nel 1948, da Paolo Dettori, noto Perredda, (1893-1969).
L’autore, era
un contadino nativo dello stazzo di Limpas (Bortigiadas) e poi
trasferitosi a Santa Maria Coghinas. Personaggio molto metodico e dal
carattere docile. Combattente nella 1ª Guerra Mondiale, dove fu anche
decorato.
LU CONTU DI LU MUTU DI GADDHURA in versi, 150 ottave in gallurese di Aggius, pubblicato nel 2004.
L’autore, Gianfranco Serra, noto imprenditore agrituristico, è nato ad Aggius nel 1957.
Nel volume vi è
anche un’ampia appendice in prosa, opera di Franco Fresi, nella quale
viene ricostruita la vicenda storica, legata alla figura di Bastiano
Tanxu.